Oggi il fenomeno della migrazione globale è un tema molto dibattuto nei media. È interessante quindi cercare di capire come e se i media digitali influenzano la percezione delle informazioni e delle news riguardo questo tema.
Possiamo definire quindi i fenomeni migratori globali un caso specifico e interessante di panico morale? Molti studi hanno cercato di analizzare il modo in cui gli strumenti di comunicazione rappresentano la relazione inter-gruppo ed è stato studiato anche il ruolo che il linguaggio ha nel ritagliare, mantenere o modificare questa relazione, spesso conflittuale, tra in-group (italiani) e out-group (immigrati).

Cosa si intende per Panico Morale

Il termine panico morale, è descritto come delle ondate emotive dove un episodio o anche una categoria di persone viene definito come una minaccia per i valori e il benessere di una società; i media, digitali e tradizionali (anche se la distinzione ormai è inutile) presentano l’episodio o il gruppo di persone facendo leva su stereotipi e pregiudizi; e i commentatori, i politici e altre autorità creano delle barriere morali finché poi l’episodio scompare o ritorni ad occupare la posizione precedentemente ricoperta nelle preoccupazioni collettive (Zappalà, 2001, p. 58).

Le cinque Fasi:
Cohen, il sociologo che ha coniato il termine panico morale parla di cinque fasi principali che costituiscono la base per la nascita del panico morale. La prima fase comprende un momento preciso, ovvero quando qualcosa, qualcuno o anche semplicemente un gruppo vengono considerati da molti come una minaccia per gli interessi della comunità e alle norme sociali presenti. Nella seconda fase la minaccia viene rappresentata con un simbolo o comunque in una forma semplice per essere riconoscibile dai media. La fase successiva porta alla preoccupazione pubblica proprio a causa della rappresentazione della minaccia sotto forma di simbolo. Nella quarta fase c’è una risposta da parte delle autorità e dei responsabili politici. Infine, nella quinta fase, il panico morale si trasforma in cambiamenti sociali all’interno della comunità. Se si tratta di un gruppo, la preoccupazione in questo caso porta alla nascita di ostilità tra il gruppo ritenuto pericoloso e chi lo ritiene pericoloso, creando così una divisione nella società tra “loro” e “noi”.

Fenomeni migratori globali, come i media digitali ne influenzano la percezione

Per introdurre il tema si può partire prendendo in considerazione ciò che ha detto Gerbner, professore dell’Università della Pennsylvania; ovvero che i media sono dei veri e propri strumenti capaci di plasmare l’interpretazione del mondo che gli individui poi elaborano. Questo suo pensiero viene teorizzato e a questa sua proposta viene stato dato il nome di Teoria della Coltivazione. La Teoria della Coltivazione è una teoria degli anni ’70 e riguarda la televisione; è una teoria vecchia, che rientra tra le teorie degli apocalittici ed è stata molto criticata.
A noi serve solo per introdurre il tema perché questa teoria spiega che il più importante effetto della violenza presente nei media non è un aumento dell’aggressività individuale, ma un più diffuso clima di paura che si insinua nei fruitori della comunicazione. Quindi sono due i concetti chiave all’interno di questo approccio teorico, quello di mainstreaming e quello di resonance. Con il termine mainstreaming si intende il processo attraverso il quale i media conducono a una omogeneizzazione nelle concezioni dell’audience (si avvicina al nuovo concetto di Filter Bubble). Quanto al concetto di resonance esso fa riferimento all’accentuazione degli effetti dei media nei casi in cui ci siano altre cause esterne che si muovono nella medesima direzione. Ad esempio, la percezione di vivere in una società dove ci sono più immigrati clandestini di quanti in realtà ce ne siano e che la maggior parte dei crimini sia a causa di questi (Arcuri, 2015).
Se i cittadini hanno questa sensazione è perché si attiva quella che viene definita l’euristica della disponibilità: questa porta ad una sovrastima e quindi alla sensazione di pericolo. L’euristica della disponibilità funziona in questo modo: gli individui stimano il numero di flussi migratori in base alla facilità con cui riescono a pescare dal magazzino della memoria qualcosa di collegato agli stessi flussi. Il ragionamento che si fa è: “se mi ricordo tante notizie su questo argomento allora vuol dire che ce n’è sono tanti”. (Cavazza, 2013, p.93).

La percezione del numero di migranti in Italia

Ora entrando nello specifico e quindi parlando di come i media digitali influenzano la percezione delle informazioni e delle news sul tema dei fenomeni migratori globali è importante sottolineare, com’è già stato scritto in precedenza, che l’uso di un determinato linguaggio rispetto ad un altro ha delle conseguenze rilevanti nella percezione delle persone.

Per il caso specifico dell’immigrazione e la sua percezione ci possono venire in aiuto i dati ISTAT del 2018. Questi dati mostrano che gli immigrati in Italia sono circa l’8% della popolazione, tra cui circa 500.000 sono immigrati irregolari, ovvero circa l’8,2% della popolazione straniera. Gli studi dimostrano che c’è una notevole preoccupazione dei cittadini italiani riguardo questa categoria di immigrati. Sempre secondo i dati dell’ISTAT gli stranieri che commettono reati sono circa il 24% popolazione degli imputati e più o meno il 36% dei detenuti nelle carceri è straniero, ma tra il 20% e il 21% del totale lo è per la presenza irregolare nel territorio italiano e non per reati commessi nel territorio Italiano (ISTAT, 2018).

Questi sono dati oggettivi, ma è interessante vedere come gli italiani invece stimano la presenza degli stranieri. Dati molto simili nel corso degli ultimi dieci anni mostrano che a fronte del 8%, la frequenza media della stima degli italiani è superiore al 25% e di conseguenza si sovrastimano anche gli immigrati irregolari. Le stesse tendenze si riscontrano a livello mondiale. Inoltre, nella stessa direzione, va il rapporto che c’è tra la sovrastima e la probabilità secondo gli italiani che gli stranieri compiano reati. Anche in questo caso la sovrastima è dovuta all’attivazione della euristica della disponibilità citata già ad inizio articolo (Arcuri, 2015).

Molte ricerche hanno analizzato il modo in cui gli strumenti di comunicazione di massa interpretano la relazione inter-gruppo ed è stato studiato il ruolo del linguaggio nel ritagliare, mantenere o modificare questa relazione, spesso conflittuale, tra in-group (italiani) e out-group (immigrati). Prendendo in considerazione come mezzo la televisione e quindi nello specifico i telegiornali, la prima differenza che questi attuano nella descrizione di un crimine riguarda la citazione o meno della nazionalità del criminale: in questo caso, quando si tratta di membri dell’out-group la nazionalità è citata nella maggior parte dei casi; accade il contrario quando si tratta di membri dell’in-group. Questo vale non solo per i telegiornali, ma anche per gli articoli di giornali condivisi poi nei diversi social media.

L’uso del linguaggio influisce nella percezione delle persone

Secondo il Linguistic Category model (LCM) le forme linguistiche possono essere classificate lungo un continuum che si estende da un polo concreto ad un polo astratto (Arcuri, 2015).
Usare termini concreti significa isolare l’evento, mentre l’uso di termini astratti consente di generalizzare ad un’intera categoria cioè che è stato descritto.
Ciò che maggiormente rappresenta la caratteristica della concretezza sono i verbi descrittivi d’azione (DAV), come nell’esempio A colpisce B’. I verbi descrittivi d’azione forniscono allo spettatore una descrizione pressoché fedele e obiettiva dell’evento, viene descritto un fatto osservabile e vengono preservate e inalterate quelle caratteristiche dell’evento che possono essere registrate anche da un altro osservatore. Ad un successivo livello del continuum si collocano i verbi interpretativi d’azione (IAV), come nell’esempio ‘A fa male a B’. I verbi interpretativi d’azione mantengono chiaro il riferimento al comportamento osservato ma presentano anche un livello di descrizione più astratto, nella misura in cui costituiscono una interpretazione delle caratteristiche dell’evento. Il terzo livello è costituito dai verbi di stato (SV), come per esempio ‘A odia B’. I verbi di stato descrivono delle caratteristiche psicologiche stabili che possono persistere aldilà della situazione specifica in cui sono state osservate. A differenza dei DAV, l’attenzione dall’individuo è spostata all’oggetto della situazione interpersonale. Infine al più alto livello di astrazione linguistica ci sono gli aggettivi, come ‘A è aggressivo’. In questo caso viene a mancare il carattere osservabile dell’evento e l’attenzione viene focalizzata su una caratteristica dell’attore, generalizzabile oltre il contesto specifico in cui è emersa. Al Linguistic Category Model si associa il Linguistic Intergroup Bias, un meccanismo che sollecita le percezioni categoriali e motiva l’in-group a difendere un’immagine positiva del proprio gruppo. La scelta della categoria linguistica per descrivere un evento risente della valenza associata al comportamento e dell’appartenenza categoriale dell’individuo. I comportamenti positivi attuati dai membri dell’in-group vengono descritti mediante linguaggio astratto, mentre i medesimi comportamenti, se messi in atto dai membri dell’out-group, ricevono descrizioni in termini concreti. Viceversa, il linguaggio astratto è riservato, nel caso dei comportamenti negativi, alle descrizioni dell’out-group. Ulteriori studi hanno dimostrato che l’uso del verbo attivo ha delle differenze rispetto a quello passivo. Queste differenze risiedono nell’attribuzione di responsabilità: quando viene usato il verbo attivo (in maggioranza per la popolazione straniera) la responsabilità del crimine viene data totalmente all’aggressore; quando viene usata la forma passiva, invece, si attribuisce la colpa in parte anche alla vittima e non solo all’aggressore (Arcuri, 2015).
Questi studi e queste ricerche dimostrano come l’utilizzo di un determinato linguaggio nei media digitali o nei media tradizionali come la televisione, possa influenzare e plasmare i comportamenti dei fruitori del mezzo di comunicazione di massa.

Filter Bubble

Il primo a teorizzare il concetto di “bolla di filtraggio” è stato l’attivista Eli Pariser,  nel 2010, e definì questa Filter Bubble: «quell’ecosistema personalizzato dell’informazione creato dagli algoritmi». Il concetto si è poi sviluppato nel corso degli anni e da più persone è stato sottolineata la possibilità che non esista una sola Internet ma esistano, in realtà, potenzialmente infinite versioni del web che corrispondono a gusti, opinioni, interessi dei singoli utenti. Più pragmaticamente c’è in letteratura un fenomeno, quello della splitinternet o della cyberbalkanization, che fa riferimento proprio all’esistenza di diversi gruppi di individui con posizioni e credenze simili che vanno a formare delle community online facilmente individuabili e coerenti (Inside Marketing). È un fenomeno non nuovo nel mondo dei media perché prima di internet comunque si comprava solo il giornale che rispecchiava le proprie idee e si guardavano i telegiornali più vicini al proprio pensiero. Ciò che è cambiato è semplicemente il fatto che i meccanismi grazie a cui si vengono a formare le filter bubble sono, oggi, molto meno evidenti.

In questo momento non ci serve capire come queste bolle di filtraggio si attivino, ma piuttosto i loro effetti. Infatti tra gli effetti meno desiderati delle filter bubble ci sarebbe la convinzione che «i nostri stessi interessi sono gli unici che esistono», cosa che ci terrebbe lontani da «nuove idee, temi, informazioni importanti» e potrebbe avvicinarci alle fake news. Le bolle di filtraggio aiutano quindi diffondere un’informazione che in realtà è limitata, parziale; e gli effetti sul dibattito pubblico sono quindi inevitabili (Inside Marketing).
Ma come sottolinea Andrea Coccia in un articolo de Linkiesta è importante tener conto che questo fenomeno non è causato da internet, ma come già accennato precedentemente, è un fenomeno presente già prima dell’arrivo della rete delle reti ed è presente anche offline. Spesso, fuori da internet vediamo sempre la stessa gente, parliamo sempre delle stesse cose e, se ci capita di incontrare qualcuno che la pensa diversamente da noi evitiamo, il più delle volte, accuratamente e pavidamente di parlarci (Andrea Coccia, Non è colpa di Internet, la “filter bubble” ce l’abbiamo nella testa, Linkiesta, 2017).

Fonti

Il Fatto Quotidiano: https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/08/27/migranti-italia-e-il-paese-ue-in-cui-la-percezione-e-piu-distorta-presenze-sovrastimate-e-ostilita-maggiore-di-tutta-europa/4583970/
Il Sole 24 Ore: https://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2018-07-09/le-distorsioni-e-politica-percezione-214537.shtml?uuid=AEQa67IF&refresh_ce=1
Inside Marketing: https://www.insidemarketing.it/glossario-marketing-comunicazione/filter-bubble/
ISTAT: https://www.istat.it/
Istituto Cattaneo: http://www.cattaneo.org/wp-content/uploads/2018/08/Analisi-Istituto-Cattaneo-Immigrazione-realt%C3%A0-e-percezione-27-agosto-2018-1.pdf
Linkiesta: https://www.linkiesta.it/it/article/2017/08/12/non-e-colpa-di-internet-la-filter-bubble-ce-labbiamo-nella-testa/35197/

Arcuri, L., Due pesi e due misure. Come gli immigrati e gli italiani sono descritti dai media, Giunti, Firenze, 2015;
Cavazza, N., Comunicazione e persuasione, Il Mulino, Bologna, 1997;
Zappalà A., Abusi sessuali su minori. Un’analisi criminologia e psicologico- investigativa, Franco Angeli, Milano, 2009;

Biografia, Marco Fabris

In questo momento sto frequentando il corso magistrale in Web Marketing & Digital Communication (IUSVE) e mi sono laureato in Comunicazione nella triennale all’Università di Padova. Mi piace mettermi in gioco, amo scoprire ogni giorno qualcosa di nuovo, coltivo le mie passioni nel tempo libero cercando di integrarle con ciò che studio. Sono affascinato da tutto il (grande) mondo Digital e dal Web Marketing. Le mie esperienze di volontariato, soprattutto nella realizzazione di un festival sportivo e musicale, mi hanno permesso di testare il lavoro in team e mi hanno dato l’opportunità di avere responsabilità tra le mani.