Cosa sta succedendo al fashion nel panorama della sharing e post-ownership economy?

Cambia la logica del consumo

La sharing economy e il consumo collaborativo non sono fenomeni nuovi e sicuramente il digitale ne ha rafforzato la diffusione. A fondamento di questi concetti sta il progressivo passaggio da un’economia manufacturing-based a una services-driven, secondo cui il valore sta non solo nella collaborazione coordinata di beni e servizi e nella condivisione degli stessi, ma a volte anche nella co-creazione tra business e consumer. Ci sono molte terminologie legate alla sharing economy: on-demand economy, circular economy, collaborative economy, uberisation, gig economy, peer-to-peer (p2p) economy, reputation economy e trust economy. A loro volta, tutti questi termini si rifanno a certe tipologie di business e di produzione di servizi, anche nel campo del fashion, come vedremo.  

Era della post-proprietà

Un altro macro trend che si sviluppa in parallelo alla sharing economy è la cosiddetta economia dell’accesso e della post-proprietà, secondo cui il consumatore contemporaneo apprezza maggiormente il pagamento di un servizio, di un bene materiale o immateriale, ma non il suo possesso definitivo. Solitamente questa tendenza si fa ricorrere a due motivi principali: 

  • L’ubiquità di internet, che ha permesso una modalità consumo “anytime-anywhere” grazie alla quale per gli utenti è possibile la fruizione di contenuti on-demand dove e quando vogliono.
  • La conseguente carenza di volontà di possesso di film, musica, fino ad arrivare ad oggetti concreti come un’auto, una casa e un capo di abbagliamento. Non che le persone non abbiano più piacere nel godere di questi beni o servizi, ma la rete ha reso più facile l’accesso, lo scambio e la condivisione di questi. Si tratta quindi di un modello economico non basato sull’acquisto e sulla proprietà di beni, ma sul riuso e sulla condivisione di questi, un modello in cui l’elemento relazionale viene messo in risalto. 

Perché condividiamo?

La condivisione e lo scambio di beni e risorse è un fenomeno ben noto da molto tempo. Vedi il baratto di cibo o di oggetti in cambio di servizi e strumenti. Ad oggi, questo tipo di approccio viene riscoperto in vari settori. Per Lawrence Lessig, questo è dovuto da un “accidente tecnico”, o meglio, tecnologico. Per l’autore la causa del recupero di questa visione economica di condivisione e di gratuità sta nel fatto che è impossibile applicare alla rete le leggi sul diritto d’autore, in quanto esse erano state pensate per un periodo in cui la tecnologia era differente. Infatti, la natura gratuita della rete – la sua stessa morfologia – rende facile la condivisione di informazioni, e di questo ovviamente i suoi utenti si sono accorti.

Altri autori – come Yochai Benkler – hanno avuto una visione meno cinica, sostenendo come la rinascita dell’economia del dono e della condivisione sia stata stimolata da un più profondo senso di collaborazione “disinteressato”. La messa a disposizione di un’informazione o un file immateriale sul web non implica automaticamente la sua perdita. D’altra parte, se si accede ad alcuni contenuti sul web dove tutto è disponibile per tutti, il bisogno di possederli viene meno. La questione è un po’ diversa per gli oggetti materiali, anche se il principio di condivisione varrebbe comunque. Mettere un oggetto in condivisione infatti non equivale a perderlo, ma semplicemente esso viene sfruttato di più, nella sua totalità. 

Anche nel fashion

Oggi si riscopre il senso dello scambio, dell’accesso e della condivisione anche nell’industria della moda. La crescente consapevolezza delle persone su tematiche come il danno ambientale causato dell’industria del fast fashion, dell’usa e getta e dello spreco di risorse che ne deriva, ha parzialmente spinto ad un cambiamento nella logica del consumo. Inoltre ci siamo resi conto che la nostra società è costernata di risorse inutilizzate. Lo scopo dell’economia della condivisione quindi spinge ad una rivalutazione di queste risorse, riqualificandole e ridistribuendole. 

Alcune aziende pioniere che hanno saputo sfruttare questa logica sono Airbnb o BlaBlaCar, esempi di piattaforme che sfruttano la cosiddetta platform economy,  – un modello di business che usa la tecnologia per connettere persone, organizzazioni e risorse in un ecosistema interattivo in cui si genera valore – e che si basano in tutto e per tutto sulla co-creazione e la collaborazione con i propri utenti, connessi tra loro in una logica peer-to-peer. 

Tra sharing economy, economia dell’accesso e dell’esperienza

Prima di approfondire alcuni business interessanti nel mondo del fashion, risulta necessario chiarire alcuni concetti fondamentali che tornano sempre quando ci si occupa di queste economie. 

  • Innanzitutto, i beni inutilizzati sono sprecati. Spesso, però, anche i beni utilizzati non vengono sfruttati appieno, comportando comunque sprechi o dispendio di risorse. Questa è l’idea che sottende BlaBlaCar, ad esempio: secondo questa logica nel momento in cui un’auto sta viaggiando con solo un passeggero, la sua utilità non è sfruttata al massimo. A ben vedere, è un concetto che sta anche alla base di Vinted, azienda che oggi sta crescendo in modo esponenziale e che ha concentrato il proprio business sull’abbigliamento di seconda mano. Per definizione un capo di prima mano rivenduto, scambiato, regalato, avrà una seconda vita. Si tratta di moda circolare, definita dal riutilizzo e lo sfruttamento di un capo che non ha esaurito la sua utilità.
  • In secondo luogo, come abbiamo accennato precedentemente, c’è stato e tuttora si verifica uno slittamento dalla volontà di possedere l’oggetto, a quella di accesso ad esso e all’esperienza che ne deriva. Ad oggi, la tendenza in atto tra generazioni giovani è quella di accedere a servizi e non quella di possedere concretamente contenuti o oggetti. In un’economia della condivisione possedere un bene non è essenziale, anzi, la priorità va a risiedere nell’esperienza che si ha di esso. Per questo motivo le concessionarie automobilistiche ci forniscono la possibilità di godere di un automobile elettrica e poi di renderla, oppure compagnie telefoniche contrattano con il “noleggio” di un iphone, che puntualmente dopo un anno cambieremo. Netflix, Spotify e altri colossi sono nati e prosperano su questa logica.
    È terminato il tempo del possesso sostituito da quella che viene definita “esperienza di consumo”. Le persone, soprattutto i millennials, non cercano più solo prodotti di alta qualità, è l’esperienza che cercano. “Le cose che contano nella vita non sono più cose” dice il CEO di Airbnb, “è l’esperienza”. E questo vale in qualsiasi campo, a partire dal modo in cui fruiamo contenuti, guardiamo serie tv, ascoltiamo musica, leggiamo libri. Questa logica è arrivata al settore dell’abbigliamento, il quale merita una riflessione più approfondita. Sono infatti nati vari business negli ultimi anni che vertono proprio sul valore dell’esperienza.

Case study: Vinted e fashion sharing

Fondato da Justas Janauskas e Milda Mitkutė, Vinted è stato lanciato nel 2008. Il concetto è semplice, ma geniale: utilizzando il sito, le persone possono scambiare, vendere o acquistare capi di seconda mano risparmiando molto e contribuendo a ridurre il volume sbalorditivo di indumenti gettati in discarica ogni anno. Non solo Vinted può aiutarti a concludere un buon affare, ma c’è anche un forte lato sostenibile che oggi ha una forte valenza. 

Un business figlio della sharing economy, in quanto basato sul valore della condivisione e dell’aiuto reciproco a spendere meno per capi alla moda, oltre che basato su una consapevolezza di sostenibilità. Nonostante gli attori di questo scambio siano mossi dal profitto, sono presenti anche valori altruistici legati alla condivisione, all’aiuto reciproco (prova di questo è la presenza dell’opzione “scambio” tra i vestiti, che avviene senza scambio di denaro tra i due utenti) e al contributo verso uno stile di vita più sostenibile.

Un movimento sociale, questo, che palesemente è influenzato da questo rinomato senso di community e di condivisione tipico delle nuove generazioni.
D’altro canto, è innegabile che l’azienda Vinted – come Airbnb e altre piattaforme – nasca dal cosiddetto platform capitalism. Anche questa azienda consente alle persone di scambiare servizi tramite una piattaforma mediatrice, che ormai conta una comunità di 37 milioni di persone in 12 mercati diversi e compete con fashion brands consolidati. 

Dunque, piattaforme come Vinted da una parte sono viste come innovatrici vitali ed emancipatrici di persone e risorse, ma dall’altra sono viste come nuove forme di sfruttamento capitalista e iperconsumista. È questa la tesi di Lawrence Lessig, che osserva come “le pratiche di collaborazione in rete possano convertirsi d’improvviso in strumenti di profitto, da un lato, e dall’altro come le grandi multinazionali abbiano ben presto imparato a sfruttare i nuovi terreni di sperimentazione, per appropriarsi delle energie creative mobilitate dalle attività peer to peer”. 

Ciò che ne deriva è appunto una forma di economia ibrida, in cui la collaborazione spontanea è stata il punto di partenza e le aziende hanno saputo sfruttarne il valore. Vinted ha saputo creare una piattaforma che capitalizzasse questo nuovo senso di comunità e di condivisione, aggiungendo il benefit del guadagno. Dalla condivisione di vestiti usati, allo scambio, fino alla vendita degli stessi, Vinted trasforma l’industria della moda usa e getta, contribuisce alla ridefinizione del vintage e a rivoluziona la percezione delle persone sul capo di seconda mano. 

La co-creazione e un consumo più razionale

Fenomeni come Vinted provano che economie commerciali e quelle della condivisione sono destinate a rafforzarsi, a crescere in parallelo e anche a fondersi. Dal fenomeno della cooperazione online – ovvero dal fatto che gli utenti abbiamo una predisposizione a condividere informazioni, file (musicali, video ecc) fino ad arrivare a oggetti fisici come capi di abbigliamento – prende piede un’economia della condivisione. Questa gioverà sia alle aziende che mettono a disposizione la rete su cui si poggiano questi scambi, sia i consumatori stessi.

La maggiore risorsa di Vinted, il motivo stesso della sua esistenza, non è stata creata dall’azienda, ma dai consumatori stessi i quali si fanno produttori e distributori del servizio. Come i driver di BlablaCar o gli host di Airbnb, coloro che vendono su Vinted mettono a disposizione le proprie risorse – i vestiti –  su cui poggia tutta la piattaforma e la community. Il consumatore è quindi anche produttore, è il cosiddetto prosumer, sul quale poggia tutto il valore del servizio e dell’esperienza finale.  Nel caso di piattaforme di fashion sharing il consumatore produce (mette a disposizione i suoi vestiti) e distribuisce (spedisce il prodotto ai compratori finali). 

Per studiosi come Yochai Benkler, la logica classica dell’accumulazione e i fenomeni di collaborazione e condivisione sono modelli contrapposti. Invece, queste piattaforme di fashion sharing sono in grado di fonderli. Qui, non solo le persone condividono abiti di seconda mano (pur restando ancorate ad una logica utilitaristica), ma coloro che li comprano, evidentemente abbracciano un’idea differente dalla logica dell’accumulo e dell’iperconsumo senza limiti che, ad esempio, caratterizza l’industria del fast fashion e le pratiche di consumo annesse. In questo modo, molte persone che acquistano abiti vintage vanno oltre l’idea di desiderio, approdando ad un consumo più razionale, pensato e cercato attivamente. Molti utenti sono mossi da motivazioni ambientaliste e quindi da un senso di responsabilità sociale e dalla volontà di fare del bene. 

Inoltre, a sostegno dell’idea di condivisione e cooperazione tra utenti, tra le varie funzionalità di Vinted c’è anche una comoda funzione per scambiare i vestiti, come accennato più sopra. Tra le varie vetrine del sito alcuni capi sono contrassegnati da un simbolo che indica che quel vestito può essere scambiato per un altro. Per questa funzione non avviene nessuno scambio di denaro e non c’è nessun guadagno in ballo. L’unico guadagno è la relazione con un nuovo utente: ecco che il processo di scambio “disinteressato” avviene. 

Fiducia e capitale reputazionale

Alla base di alcuni business che si muovono tra economie della condivisione, piattaforme e economia dell’esperienza, c’è la fiducia. Le community che si creano sono composte da persone che non si conoscono tra loro, ma che si fidano le une delle altre in quanto sono tutte unite dal bisogno di poter entrare in contatto tra loro in modo semplice e sicuro. La fiducia è la base ed è quasi data per scontata, in quanto rapportandosi con i nostri pari in applicazioni come Vinted,  siamo più propensi a fidarci. Le relazioni sono gestite in modo automatico, all’interno di schemi che le regolamentano e standardizzano. Inoltre, il sistema di reputazione è ben progettato, infatti chi ha un comportamento scorretto può essere facilmente individuato e marginalizzato. Al contrario, chi è aperto, trasparente e onesto viene ricompensato con ulteriore spazio di visibilità. 

Già nel 2012 Rachel Botsman parlava di capitale reputazionale e di come la reputazione sia diventata la nuova moneta. La reputazione è infatti la quantità di fiducia che la comunità di cui facciamo parte ripone su di noi. Dunque, Vinted è la piattaforma che offre un network basato sulla fiducia e la sua fama cattura sempre più persone, mentre l’attività dei suoi utenti è vista come un flusso basato sulla reputazione che di per sé diventa capitale economico. Gli utenti sono quindi invitati a condividere rating, in modo da rafforzare il senso di community e allo stesso tempo il capitale reputazionale. Se le persone possono fidarsi di più, possono risparmiare denaro, essere sostenibili e guadagnare.

 

Case study: Rent The Runway e fashion renting (o rental fashion)

Rifkin nel 2000 aveva immaginato l’emergere di una “Age of Access”, prevedendo uno spostamento del consumo ad un concetto di post-proprietà, sull’uso e sull’esperienza a breve termine piuttosto che sulla proprietà a lungo termine.

Recentemente, l’economia dell’accesso si è materializzata sotto forma di aziende che offrono sempre più servizi invece che prodotti, con nuovi modelli di business più funzionali sotto molti punti di vista.

  • Essi offrono un accesso più democratico e meno costoso ai servizi.
  • L’accesso evita la necessità di investire sulla proprietà.
  • Infine, il lato di sostenibilità ambientale è centrale e l’economia dell’accesso è promossa come una soluzione sostenibile. Per i modelli basati sul noleggio, si punta ad un uso più intensivo dei prodotti, allungando il loro ciclo di vita e offrendo una possibilità di sfruttamento di un dato bene maggiore. 

Al di là delle piattaforme peer-to-peer, l’economia della condivisione include quindi aziende business-to-consumer: Rent the Runway infatti noleggia direttamente a consumatori. Il noleggio risponde all’esigenza emergente in una società oberata di beni ed esprime la voglia di demandare le mansioni di gestione ad altri. Non si tratta più di investire un enorme somma di denaro per comprare capi di abbigliamento costosissimi, bensì spendere il denaro un po’ alla volta, pagando un abbonamento che mi permetta di godere dell’esperienza quei vestiti per un certo periodo. In questo senso, vince la consapevolezza che il possesso è spesso time consuming e molto più impegnativo di soluzioni che consentono di soddisfare il bisogno in modo simile.

Infine, un’altra tendenza che il mercato del noleggio di abbigliamento mette in atto è l’offuscamento dei confini tra vendita al dettaglio offline e shop online; infatti, i consumatori possono noleggiare online, visitare un negozio o utilizzare app per vedere gli articoli, salvando i capi piaciuti e ottenendo quindi un’esperienza ancora più personalizzata. 

Il Netflix del fashion

La proposta di valore di Rent The Runway funziona in modo semplice: il rivenditore possiede gli articoli di moda firmati e di lusso e li affitta al cliente, il quale, dopo un determinato periodo di noleggio li restituisce.

Our mission is to power women to feel their best every day. We started a rental revolution, and changed the fashion industry.

Nel 2009, il progetto parte con uno scopo ambizioso: quello di rivoluzionare l’industria della moda creando per le donne il primo closet in the cloud al mondo: un armadio da sogno con vestiti firmati da noleggiare, indossare restituire, ma anche acquistare; il tutto contribuendo a una futuro più sostenibile. Rent The Runway crede in una moda circolare, che e si basa su tre concetti: rent-reduce-reuse. Affittando, non solo riduci l’ammontare di vestiti in discarica, ma partecipi alla shared clothing economy. Rent the Runway si propone poi di estendere ulteriormente il ciclo di vita dei vestiti, donandoli ad associazioni no profit nel momento in cui non possono più essere noleggiati.

Dunque, anche se nel 2018 il mercato del noleggio di abbigliamento statunitense rappresentava meno dell’1% del mercato totale dell’abbigliamento, esso è cresciuto del 24% rispetto al 5% del mercato più ampio del settore. Nonostante le piccole dimensioni, uno dei motivi principali per cui il noleggio di moda meriterà attenzione anche in futuro è appunto per la sua intrinseca sostenibilità. Dalla riduzione degli sprechi all’aumento della durata dei capi, il fashion renting contrasta l’iperconsumo e aiuta il passaggio dal modello del take-make-waste ai principi dell’economia circolare.

L’esperienza del lusso

L’azienda  risponde quindi al bisogno delle donne di sentirsi “Cenerentola”, facendo esperienza di abiti che altrimenti sarebbero troppo costosi. Questo nuovo tipo di consumatore non prova attaccamento emotivo per gli oggetti. Anzi, è interessato a “consumare” prodotti aspirazionali per l’esperienza che ne consegue e per come lo fanno sentire in un certo arco di tempo.

Inoltre, il settore del lusso è da sempre fondato su concetti di esclusività e scarsità: acquistiamo capi di marca piuttosto che alternative “di massa” in parte per la garanzia che questi capi siano più esclusivi. Anche se questa sensazione può essere compromessa dalla condivisione e dal noleggio, il sentirsi invece alla moda e la consapevolezza di “avere gusto” nel vestire, non verrà meno. Il gusto può essere dimostrato attraverso l’esternalizzazione di certi capi, indipendentemente dal loro possesso.

Cosa sta accadendo a causa della pandemia?

Le opportunità che tipologie di consumo collaborativo basate sul noleggio portavano sono state messe in discussione durante il Covid. Cosa succede infatti nel momento in cui la crisi, oltre ad essere economica, è anche sanitaria? Il trend del noleggio potrebbe mutare per il fatto che le persone ad oggi sono molto più attente a questioni di igiene di quanto non lo fossero prima della pandemia. Dunque, i rischi associati al noleggio di prodotti “vicini alla pelle”, ma anche il calo della fiducia nell’azienda in questo senso, crescono a causa del virus.

Se prima della pandemie queste piattaforme erano posizionate come soluzione dell’iperconsumo, alla enorme quantità di rifiuti provocata dall’industria del fast fashion, ora la vera sfida ritorna interna. Rent the Runway nel 2020 ha licenziato il 35% del suo personale, tagliando i budget di marketing e riducendo gli stipendi dei dirigenti. Si teme quindi che la pandemia rallenti i progressi di molte di queste iniziative. In più, quanto i grandi brand sono ancora disposti a intraprendere iniziative verso la sostenibilità, quando l’impatto finanziario è ben maggiore?

Nonostante l’industria della moda sia stata colpita enormemente dal Covid e il settore del rental fashion non stia passando un bel momento, le piattaforme di abbigliamento di seconda mano, all’opposto, stanno riscontrando una crescita record. Depop, Vestiaire Collective, ThredUp, così come la nostra Vinted, segnalano un aumento del traffico e delle vendite e tutte si conformano alla recente tendenza di crescita dell’usato nell’ultimo anno. Sembra quindi che la crisi pandemica abbia, ancora di più della crisi del 2008, diffuso la necessità di “risparmiare”. 

Che fine farà, infine, il tradizionale modello di vendita al dettaglio se l’economia della condivisione avrà la meglio? In un’era dominata dalla comodità dell’accesso istantaneo e dal desiderio di fare esperienza del lusso, la prossima grande tendenza potrebbe essere l’evoluzione dell’armadio “affittato” ad un prezzo conveniente.

 

Fonti