Ricordo e probabilmente appartengo all’ultima generazione di coloro che possono ricordare, com’era la vita nell’ era pre-digitale dell’Italia anni novanta.
Quando il personal computer era ancora una grande e chiassosa macchina nell’ufficio di mia mamma la quale non avrebbe mai pensato di ritrovarlo sulla scrivania di casa qualche anno dopo.
“Strumento inutile del resto, fa da calcolatrice, ma è ingombrante, rumoroso, lo schermo a volte si blocca e la stampante manca spesso d’inchiostro”
sosteneva lei al ritorno da lavoro. Il resto è storia conosciuta: un continuo via vai di macchine dal soggiorno di casa perché diciamocelo i primi modelli pensati per l’utilizzo familiare erano proprio un disastro e noi bambini vogliamo sempre il meglio per noi stessi e i nostri pomeriggi spesi a giocare in 3, 4 o 5 davanti allo schermo di casa a giochi che ora un bambino nato nel nuovo secolo stenterebbe a definir tali.
Sommario
Intro
Qualche mese fa mi trovavo a Melbourne e mi capitò quasi per caso di visitare l’ Australian Centre For The Moving Image. Un’intera sezione del museo contiene una vasta raccolta di videogiochi a partire dai primi prototipi risalenti agli anni cinquanta, a quelli a me più familiari di fine secolo, a quelli nuovi, futuristici e mai visti.
Vecchie console di gioco
L’interessante stava nella possibilità di giocare con tutti questi, sfidando i bambini mi resi conto che, mentre non avevo alcuna possibilità di successo con i videogame dell’ultima generazione, qualche vittoria potevo ottenerla man mano che percorrevamo in direzione opposta la storia dell’industria dei videogiochi.
Una bambina, dopo avermi battuto ripetutamente alla PlayStation, persino mi chiese quali erano le regole e il funzionamento di un vecchio gioco su floppy disk, a due dimensioni di profondità, sviluppato per girare nella console Amiga 500 prodotta da Commodore alla fine degli anni ottanta. Annoiata e incredula mi chiese:
“Ti piace? A me no. È noioso, non succede niente ed è brutto, la grafica fa schifo. Cambiamo?”
Ero lo stesso gioco con cui avevo speso entusiasta più di un pomeriggio della mia infanzia.
I telefonini di prima generazione
Ricevetti il mio primo cellulare nel giorno della cresima, a 14 anni circa, dopo averlo formalmente richiesto a Babbo Natale più volte sottolineando quant’ero stato bravo ogni anno. Ma a quanto pare, non lo ero mai abbastanza.
Quel primo cellulare era grandioso, eccezionale nonostante non fosse abilitato all’invio e alla ricezione di messaggi, non avesse che 4 o 5 melodie monofoniche e non sostituibili e fosse tanto grande e pesante da apparire essenzialmente opposto all’idea di mobile device.
Al tempo ero l’unico ad averne uno in famiglia e il fatto mi rendeva particolarmente fiero. Qualche mese più tardi mamma e papà scoprirono che senza possedere un cellulare a loro volta il mio era praticamente inutilizzabile: lei si adattò alla novità, lui ci mise molto più tempo e non fu mai totalmente convinto della soluzione.
Ancora oggi, c’è chi accende solo nel momento in cui è costretto a far una telefonata e lo spegne, subito dopo. Statisticamente è interessante come la reazione di un gran numero di persone già adulte al tempo dell’introduzione nel mercato di massa del cellulare sia stata:
“A che serve? Secondo te le persone hanno bisogno di questo cosa per darsi un appuntamento? E io come avrei fatto tutta la vita senza questo? Eh?”
Mio padre è perfettamente dipinto in quest’immagine. Il tono spesso è di sfida, quello di una persona che sa di potersela cavare senza quel o quest’altro mezzo tecnologico ed è probabilmente simile alla sfida vissuta più di un secolo fa dalle nostre famiglie al tempo delle prime automobili.
La reciproca diffidenza
Tale sfida è spesso letta come segno di debolezza, di mancata propensione alla novità, di stanchezza e senilità ma a uno sguardo più attento manifesta forse il rapporto bellicoso e la diffidenza che da più di venticinque secoli – e probabile sin dalla nascita dell’uomo – intrattiene uomo e macchina, civiltà e tecnica.
Qualcuno tra i nostri progenitori tempo fa nell’umido di una caverna decise di pitturare scene di vita rupestre (per un approfondimento sulle Grotte di Lascaux si legga La Nascita dell’Arte di G. Bataille), qualcun altro conquistò l’uso del fuoco e la conoscenza utile per accenderlo e domarlo, qualcuno per la prima volta scrisse decidendo di condividere con i presenti e futuri i propri pensieri.
L’uomo inventa e sviluppa la tecnologia, dove sapere e pratica convivono, come mezzo per la soluzione dei propri problemi. Ma nuove tecnologie offrono nuovi problemi da risolvere e quelle antiche sono a tal punto entrate a far parte della vita dell’uomo che è difficile pensar questo senza quelle. L’uomo e i suoi strumenti tecnologici convivono originariamente nel mondo.
È dunque comprensibile perché sia così difficile pensare l’essenza della tecnologia, isolarne il fenomeno in un concetto, afferrandone il pieno significato in una definizione. Ciò che più spaventa l’uomo è il trovarsi di fronte a qualcosa di sconosciuto.
La situazione di panico provata al lancio di un nuovo prodotto avvicina le generazioni: mio nonno non vedeva di buon occhio l’avvento della televisione, mio padre e coetanei pur non capendo la necessità di un cellulare si convincono a usarlo ma rifiutano categoricamente la saga iPod, iPhone, iPad. A mia volta è probabile vi sarà un giorno in cui mi ritroverò nel panico di fronte all’ultima innovazione. Di per sé, già basti pensare che la mia confidenza con Facebook o altri online social network è limitata se confrontata a quella del mio cuginetto e della classe nata nel nuovo millennio.
La posizione svantaggiata dell’uomo
Pensare la tecnologia è possibile solamente a partire da una posizione svantaggiata. La tecnologia, sviluppata dall’uomo per allontanare il panico vissuto nell’oscurità della notte, il pericolo degli animali selvaggi e la violenza della natura, è a sua volta opaca, a volte incomprensibile, aliena al proprio creatore e instaura un secondo ordine, questa volta artificiale, di panico.
Ma il rifiuto di alcuni nell’utilizzare l’ultimo prodotto tecnologico offre la possibilità per una seconda riflessione. Non è possibile usare il cellulare per comunicare solo con un ristretto numero di conoscenti escludendone altri, la stampante di tanto in tanto e solo quand’è strettamente necessario, oppure ricorrere a Wikipedia solo quando non ci si trova nelle prossimità di una biblioteca.
Una soluzione provvisoria
La tecnica in sé stessa è un fenomeno avvolgente al quale è difficile se non impossibile sottrarci.
Alcuni romantici e artisti al tempo della rivoluzione industriale decisero di emigrare verso i paesaggi esotici e incontaminati del Sud Est Asiatico per fuggire alla progressiva tecnicizzazione della vita europea. Fu una soluzione provvisoria dato che oggi non è raro incontrare sacerdoti cattolici e monaci tibetani che si muovono nel traffico grazie alla propria automobile concedendosi qualche brano musicale prima della giornata di lavoro trasferito da una connessione senza fili direttamente negli altoparlanti del veicolo.
La tecnica è un dispositivo di potere – che funziona solo quando è in grado di avvolgere gli individui in un insieme di relazioni, in un apparato organizzato, conosciuto e prevedibile – in quanto tale la tecnica è originariamente una rete che aliena all’esterno di sé il non conosciuto e ordina i propri elementi attraverso meccanismi di sapere / potere.
Nessun singolo individuo è in grado di controllare un dispositivo tecnologico in quanto esso è progettato, costruito e alimentato secondo la logica distributiva della rete. La piena comprensione dell’essenza della tecnica è ostacolata:
- dal suo carattere non umano,
- dalla sua pervasività.
Il moderno apparato tecnologico è una rete distribuita di relazioni di potere non solo perché pensare un singolo device è una contraddizione in termini (quando pochi individui possedevano una carta di credito o un cellulare, questi strumenti erano pressoché inutilizzabili) e nemmeno perché alla tecnica ci si affezioni (al primo uso segue di solito un continuo ricorso allo stesso strumento per la soluzione di simili situazioni).
La tecnologia assume originariamente un’architettura a rete in quanto questa è il presupposto fondamentale e la ragione della sua efficenza: il panico viene allontanato attraverso l’organizzazione e la produzione di uno spazio codificato perché conosciuto e quindi anticipabile.
Perché uno spazio sia interamente conosciuto e trasparente è necessario un dispositivo di esclusione e inclusione che registri ogni movimento tra l’ordine interno e il panico esterno. La società contemporanea è un insieme dinamico di reti distribuite di relazioni e interessi che esercitano il proprio potere attraverso meccanismi di esclusione ed inclusione.
Questa architettura sociale è la manifestazione storica della razionalità Occidentale ovvero del tipo di agire e pensare tecnico che domina il reale e allontana la sensazione di panico attraverso la produzione e organizzazione di spazi distribuiti e regolati, apparati o dispositivi. Nella rete ciò che conta è chi è escluso, chi è lasciato fuori. La rete si definisce per esclusione.
Vorrei suggerire che il ritrovato interesse per la riflessione sulla natura e lo status della tecnica degli ultimi decenni, non è frutto del caso ma è idiosincratico al parallelo sviluppo di nuove forme di comunicazione mediata, all’avvento di Internet e del Web, a reti sempre più complesse e numerose di persone interconnesse.
Il modello di vita promosso dalla società occidentale contemporanea è intrinsecamente legato alla possibilità di comunicare, condividere e interagire con altri e con la realtà esterna – I share therefore I am – è la provocazione che un’applicazione di Facebook in voga nel periodo in cui scrivo getta a distanza di secoli al soggetto cartesiano.
Vero. Non è dimostrato da alcuna ricerca scientifica se e come l’utilizzo dell’ultima generazione di cellulari e di altre forme di comunicazione mediata modifichino il pensiero dell’uomo incidendo su usi e tradizioni, agendo a livello epistemologico oppure cambiano la modalità con cui ci rapportiamo al mondo esterno ma è certamente chiaro che viviamo oggi in un momento di transizione, e quindi di cesura, tra una società moderna fondata sull’interazione immediata degli individui tra loro e degli individui con l’ordine istituzionale dello Stato e dell’Amministrazione Pubblica e la società della rete, o network society.
Come ha brillantemente sottolineato Alexander Galloway:
Perhaps there is no greater lesson about network than the lesson about control: networks, by their mere existence, are not liberating; they exercise novel forms of control that operate at a level that is anonymous and non-human, which is to say material.
Il carattere disorientante di ogni rete immobilizza nel panico pensiero e azioni degli uomini specialmente nel momento in cui per errore o incidente il flusso di relazioni assume una spirale negativa fuori da ogni controllo, per esempio: epidemie e diffusioni di virus, Internet worms e repentini cambiamenti di moda nel proprio profile su Facebook, errori e malfunzionamenti genetici, cambiamenti climatici, guasti alla rete elettrica e reazioni nucleari non previste e de facto ingestibili.