Nell’era del social 2.0 la funzione del web diventa quella di assorbire l’energia delle persone per intrappolarle in quello che viene definito come un “flusso continuo di comunicazione”. Essere costantemente reperibili e raggiungibili grazie ad un semplice “invia messaggio” comporta delle conseguenze non trascurabili per gli utenti di oggi. 

Questo capitalismo comunicativo comporta una perenne insoddisfazione, che l’utente cerca di colmare non uscendo dal flusso, dal quale sarà nuovamente inghiottito e reso insoddisfatto. 

Tristan Harris, esperto di etica del design e cofondatore del Center for Humane Technology, ha individuato alcuni metodi principali attraverso cui la tecnologia riesce a sfruttare le nostre vulnerabilità psicologiche per riuscire a tenerci costantemente incollati allo schermo. 

 

Perché passiamo così tanto tempo di fronte allo schermo

Innanzitutto, i programmatori e designer danno agli utenti l’illusione di poter compiere le loro scelte liberamente. Ciò che accade veramente è che nel momento in cui determinano il ventaglio di opzioni disponibili, hanno il potere di includere o meno determinate alternative, riuscendo, di conseguenza, a dirottare l’utente su ciò che desiderano. Potrebbero, ancora, includere volutamente distrazioni o confondere il fruitore con una lista di opzioni interminabile, togliendogli tempo prezioso della sua giornata. 

Secondo Harris, se andassimo ad indagare a fondo sulle varie possibilità offerte ci accorgeremmo di quanto, in realtà, non siano in linea con i nostri veri bisogni.

Un secondo espediente di cui si avvalgono i designer segue la logica del gioco d’azzardo, nello specifico delle slot machines. Quando apriamo le nostre app, per aggiornarne il contenuto strisciamo il dito verso il basso, proprio come accade quando si gioca alle slot machines. Successivamente riceviamo una cosiddetta “ricompensa variabile” e il fatto che sia, appunto, “variabile”, aumenta il tasso di dipendenza. Ad oggi, a questo proposito, le grandi aziende hanno dato una soluzione, seppur parziale, introducendo la possibilità di determinare in quali orari si desidera ricevere messaggi o mail o impostare il tempo di utilizzo riservato a specifiche app. 

Altro aspetto che progettisti tecnologici sfruttano sono le cosiddette FOMO (fear of missing out) e FOMSI (fear of missing something important). La FOMO è una forma di ansia sociale legata alla paura di perdere un’opportunità di interazione sociale. È un fenomeno in crescita, principalmente fra i giovani e giovanissimi, che comporta l’ossessivo refresh delle proprie pagine social per controllare se i propri amici o conoscenti stanno vivendo un’esperienza memorabile che noi invece ci stiamo perdendo. Le conseguenze legate a questo disturbo intrappolano l’utente in un circolo vizioso: l’utilizzatore pensa di poter colmare la propria solitudine attraverso i social media, tuttavia finisce inevitabilmente per sentirsi ancora più solo e chiudersi in sé stesso. La FOMSI è legata alla paura di perdersi qualcosa di importante, ma non necessariamente legato alla propria cerchia di amici. L’utente si chiede, per esempio, se disiscrivendosi dalla newsletter potrebbe sfuggirgli qualche notizia importante, nonostante non la apra da mesi; ancora, potrebbe aver paura di perdere un possibile match sulle app di incontri se non continua a strisciare il dito sullo schermo. 

Dovremmo tutti renderci conto del fatto che perdiamo costantemente notizie, novità ed eventi anche nella vita offline e che ciò è assolutamente normale. Infatti, nel momento in cui decidiamo di credere a ciò e ci scolleghiamo per un determinato periodo di tempo o annulliamo l’iscrizione alla newsletter, le paure e le preoccupazioni legate alla FOMSI risultano assolutamente infondate. Harris chiama quindi in causa i designer, facendo loro un appello: chiede che progettino le applicazioni per fare in modo che aiutino le persone a relazionarsi con i propri amici in termini di tempo ben speso anziché in termini di ciò che potrebbero perdersi. 

Approvazione e reciprocità sociale

Siamo poi tutti vulnerabili all’approvazione sociale. Da sempre l’uomo è mosso in almeno alcune delle sue scelte dalla ricerca di apprezzamenti e sostegno da parte degli altri. Il giudizio altrui concorre alla determinazione della percezione di noi stessi e quando è positivo alimenta la nostra autostima e ci dà sicurezza. Nei social questo fenomeno viene amplificato, poiché il bacino di persone raggiungibili si estende notevolmente. Più persone metteranno like al nostro post o alla nostra foto e più ci sentiremo gratificati e avremo soddisfatto il nostro bisogno. Spesso, tuttavia, la spasmodica ricerca di approvazione da parte degli altri utenti può portare all’esaltazione di un’immagine di sé che non corrisponde alla realtà, con il risultato che l’utente perde la propria autenticità. 

Ad esempio, quando su Facebook riceviamo la notifica che ci indica che siamo stati taggati in una foto, quasi sicuramente interromperemo la nostra attività per controllare se in quella foto siamo venuti bene. È facile immaginare cosa potrebbe accadere dopo aver controllato il tag: perderemo tempo all’interno dell’app e successivamente ci torneremo in continuazione per controllare like e commenti ricevuti. I designer, anche in questo caso, hanno un grande potere. Quando l’utente desidera caricare una foto, infatti, Facebook suggerisce in automatico il profilo da taggare, riconoscendolo tramite altre foto. Probabilmente senza il suggerimento della piattaforma l’utente avrebbe evitato il tag e l’amico non avrebbe interrotto la propria attività. 

Un’ulteriore vulnerabilità umana che le app di messaggistica e posta elettronica sfruttano per sottrarre tempo prezioso alle nostre attività quotidiane e intrappolarci al loro interno è la reciprocità sociale. Gli uomini, infatti, sono naturalmente portati a ricambiare un gesto che viene da un’altra persona. Nella pratica, ciò si traduce nella risposta immediata all’arrivo di una notifica di richiesta di amicizia, di un messaggio o di una nuova connessione, con conseguente interruzione della propria occupazione, perdita dell’attenzione e, inevitabilmente, calo della resa. È doveroso sottolineare come, molto probabilmente, la persona che ha inoltrato la richiesta non l’abbia fatto consapevolmente, ma come risposta ad un elenco di contatti suggeriti dall’applicazione con cui si sente in dovere di interagire. 

Inoltre, le conferme di lettura alimentano questo circolo vizioso: nel momento in cui l’utente sa che l’altra persona può vedere che ha letto il messaggio, si sente automaticamente in dovere di rispondere immediatamente per non apparire scortese. In aggiunta, è stato dimostrato che gli avvisi di notifica che ci spingono a guardare lo schermo in continuazione attivano percorsi neuronali analoghi a quelli che si mettono in azione nel momento in cui ci troviamo di fronte ad un pericolo imminente. In questo caso, però, siamo dirottati verso informazioni molto più banali e meno essenziali. Gli studiosi affermano che se non si lascia tempo al cervello per rigenerarsi, si può andare incontro alla degenerazione neuronale, causata appunto da una dipendenza dallo smartphone. Di recente, infatti, sono nati diversi disturbi correlati a questo fenomeno. La nomophobia (dall’inglese no-mobile-phone) indica la paura di non riuscire a connettersi alla rete e non avere accesso ai social network. Provoca effetti molto simili a degli attacchi di panico, quindi angoscia, sudorazione, difficoltà a respirare, ecc. La ringxiety, che unisce ring e anxiety, causa nell’individuo la sensazione di avvertire il suono o la vibrazione delle notifiche quando, di fatto, non si manifestano. Questo disturbo porta a stati di ansia vera e propria. 

Possiamo affermare che parte della questione è stata risolta dai designer con la modalità “non disturbare”, grazie alla quale vengono bloccate tutte le notifiche in entrata, comprese le chiamate, se lo si desidera. Tuttavia, all’interno delle app continuiamo a trovare, nella sezione delle richieste di contatto, anche i diversi suggerimenti proposti. 

Un flusso continuo di notizie

Per continuare a guadagnare dal nostro tempo di utilizzo delle applicazioni tenendoci al loro interno anche se non ne abbiamo realmente bisogno i progettisti elaborano feed di notizie infiniti. In questo modo privano i fruitori della possibilità di terminare le novità, prevedendo un flusso continuo di news che porterà l’utente a continuare a scorrere, potenzialmente all’infinito. Spostandosi dalle app di notizie a quelle basate principalmente sui video si può notare quanto facilmente sia possibile applicare questa stessa logica. Grazie alla riproduzione automatica i designer tolgono all’utente la possibilità di fare una scelta consapevole riguardo la prosecuzione della visione, creando, anche in questo caso, una sequenza senza fine. 

Togliere all’utente la facoltà di isolare il motivo per cui desidera utilizzare l’app costringendolo ad atterrare nella sezione delle notizie risulta essere un altro metodo che i designer sfruttano per massimizzare il nostro tempo di utilizzo. Di fatto, i progettisti fondono le ragioni per cui un fruitore decide di usufruire dell’applicazione con le ragioni aziendali dell’app. In effetti, ad esempio, quando si desidera cercare un evento su Facebook si è costretti ad atterrare nella sezione delle notizie, in cui, come citato precedentemente, si andrà inevitabilmente ad abbandonarsi almeno per qualche minuto. Lo scopo di questo tipo di applicazioni è quello di massimizzare il nostro tempo di consumo ed è per questo che tolgono agli utenti la possibilità di scelta. 

Oltre a ciò, gli ideatori delle app riconoscono l’incapacità degli utilizzatori di prevedere le conseguenze che porta un click. Coloro i quali pensano che cliccare su un bottone sia un’operazione di un millesimo di secondo ignorano ciò che cela questo semplice gesto. Il costo reale di un click è in realtà determinato dalla tecnica chiamata Piede nella porta. Questo sistema prevede che si effettui una prima richiesta, apparentemente molto semplice e poco onerosa per chi la riceve, per poi, una volta ottenuto il consenso, richiederne una molto più impegnativa. È stato dimostrato, appunto, che le persone sono molto più inclini ad accettare una proposta, specialmente se gravosa, se precedentemente ne hanno accettata una nettamente più ammissibile. A dimostrazione di ciò, è sufficiente osservare come dietro una notifica di tag in una foto si celino almeno 15 minuti di tempo speso all’interno dell’applicazione. La richiesta a cui l’utente deve rispondere è apparentemente molto semplice, come “visualizza foto” o “vedi post”, quindi crede di entrare nell’app solo per questa ragione. In effetti, tuttavia, sarà naturalmente portato a restare per controllare messaggi, notizie o video. I designer, anche in questa situazione, nascondono il costo reale del click dietro un’azione molto banale, celando i reali costi e vantaggi che ha portato. 

Una realtà fratturata

In un’intervista di inizio anno alla Graduate School of Journalism Tristan Harris discute della recente uscita del film The Social Dilemma, in cui parla della quantità di informazioni che le aziende tecnologiche conoscono su di noi e di come, grazie a queste, riescano a dirottare le nostre menti. Un’azione così semplice come scorrere i polpastrelli sullo schermo fornisce a imprese del settore tecnologico dati estremamente precisi sui nostri interessi in qualsiasi ambito, dalla politica, all’orientamento sessuale, alla nostra posizione in merito ai vaccini e così via. 

Gli algoritmi che si celano dietro riescono in questo modo a restituirci, all’interno delle app, notizie, immagini e video perfettamente allineati al nostro pensiero. Il risultato è che ogni utente nel proprio feed ha la propria versione della realtà: non esiste più un’unica verità, ma questa viene fratturata in miliardi di realtà diverse, che rispondono perfettamente alla ricerca di ogni utilizzatore di bias di conferma. I bias di conferma consistono in errori cognitivi che, nel momento di acquisizione di nuove informazioni, ci portano a credere più facilmente a notizie che confermano la nostra ipotesi iniziale, facendoci ignorare quelle che invece la contraddicono. In questo modo, senza rendercene conto, perdiamo il contatto con la realtà al di fuori dei social network e ci chiudiamo in un circolo vizioso che continuerà a confermare le nostre idee, giuste o sbagliate e vere o false che siano. 

Per capire a fondo la portata di ciò che questo sistema comporta, possiamo fare affidamento ad uno studio del 2019 di Renee DiResta, responsabile della ricerca tecnica presso lo Stanford Internet Observatory. Dopo quattro anni di osservazione ed elaborazione dei dati, la ricercatrice ha confermato che, su Facebook, ai neo-genitori vengono consigliati in automatico gruppi no-vax dopo l’iscrizione ad un semplice gruppo che raccoglie informazioni sui neonati. 

Conclusioni

Per riassumere, oggi il dibattito fra etica e profitto in ambito del trattamento dei dati legati alla nostra vita online è più aperto che mai. Le aziende tecnologiche devono riconoscere il loro impatto sociale e agire per garantire maggiore trasparenza in merito al loro utilizzo. Harris, per l’Europa, propone una direzione finalizzata alla protezione degli utenti, simile alla Commissione Federale per le Comunicazioni americana.

I designer, dal loro lato, dovrebbero riprogettare il modo in cui le applicazioni sono state pensate fino a questo momento, ad esempio spostando l’obiettivo dalla facilità di invio del messaggio alla qualità della relazione fra due persone. Ciò significa ridurre le continue interruzioni che gli utenti si causano a vicenda ogni giorno, promuovere una fruizione delle app in funzione dei reali bisogni degli utilizzatori e, più generalmente, predisporre una user experience che non inghiottisca il fruitore all’interno dell’applicazione facendogli, come abbiamo affermato fino ad ora, perdere tempo.

 

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

 

BIOGRAFIA

Sono Anna Zovi, studentessa di Web Marketing e Digital Communication presso IUSVE. Laureata in Lingue e culture per il turismo e il commercio internazionale, ho deciso di avvicinarmi al mondo digital nel mio percorso magistrale. Mi sono sempre chiesta perché, spesso, sento che il bisogno di essere costantemente connessa mi sembra fuori dal mio controllo.