Sommario
Un tentativo di definire cosa vuol dire “amicizia”
Definire completamente e dettagliatamente il significato dell’amicizia è difficile – se non impossibile. Essa infatti ha mille sfumature diverse e significati mutabili di persona in persona e, come si legge anche nell’Enciclopedia Treccani, “tutti sappiamo cos’è l’amicizia. Tutti la conosciamo e, in misura maggiore o minore, ne godiamo. Tuttavia, darne una definizione è difficile. Nessuna teoria psicologica, filosofica o poetica, infatti, può pretendere di spiegare completamente questo rapporto umano universale.”
Pensando all’immagine più semplice e immediata di questo tipo di rapporto probabilmente ci vengono in mente le amicizie che abbiamo stretto quando eravamo bambini: bastava trascorrere qualche ora a giocare al parco, a fare i compiti insieme, a costruire castelli di sabbia. Ricordo ancora il cortile del mio asilo e quei due gesti universali che creavano e distruggevano rapporti: se ti faccio il pollice in su (precursore dei Like sui social?) vuol dire che sei mio amico, mentre se ti faccio il pollice in giù, o non mi interessi o mi hai fatto un torto talmente grande che sei cancellato dalla mia cerchia sociale.
Crescendo, spesso i rapporti si fanno più complicati e i confini relazionali più confusi, e un ulteriore elemento di complicazione è stato Internet e, più specificatamente i social, che hanno modificato il nostro modo di intendere e di vivere le amicizie.
Prima di parlare più approfonditamente di questo particolare tipo di rapporto e di come i social network abbiano influito su di esso, è necessario però fare un passo indietro e definire più in generale le relazioni dal punto di vista sociologico.
Una definizione accademica di amicizia
Legami forti e legami deboli
Mark Granovetter classifica tre differenti forme di legami che uniscono le persone: forti, deboli e assenti. In merito all’ultima categoria non mi soffermerò molto, in quanto indica un legame che semplicemente non c’è, una relazione che non esiste.
Per quanto riguarda i legami forti, questi fanno riferimento a una relazione solida e duratura, come quella che lega i genitori e i figli (e le parentele in generale), degli amici particolarmente affiatati e due innamorati. I legami deboli, invece, come si può intuire già dall’aggettivo stesso che li connota, sono quelli più superficiali e occasionali, come fra colleghi di lavoro/compagni di scuola con cui si scambia solo qualche chiacchiera di circostanza, vicini di casa che si salutano e con cui si discute delle condizioni meteorologiche – in senso più generale, quindi, semplici conoscenti.
La forza dei legami deboli
Attenzione però: non dobbiamo lasciarci confondere dall’aggettivo “debole”, che nelle nostre menti potrebbe assumere un connotato negativo.

Dobbiamo immaginare noi stessi come un punto centrale in un foglio bianco su cui sono raccolte tutte le persone con cui abbiamo avuto contatto (nel passato e nel presente). Esse sono a loro volta dei punti, più piccoli, che sono collegati a noi con delle linee. Queste linee saranno più spesse se il legame è più forte; più sottili se il legame che ci unisce è più debole. Ricaviamo quindi una mappatura di tutte le persone che abbiamo conosciuto e conosciamo, tutte collegate a noi con diversi gradi di intensità.
Se prendiamo una lente di ingrandimento e analizziamo più in profondità queste costellazioni di legami che ci uniscono, ci renderemo conto di qualcosa che stava molto a cuore a Granovetter: la forza dei legami deboli. Formulata in questo modo appare forse un’affermazione un po’ contraddittoria, ma è proprio il titolo del suo articolo scritto nel 1973 in cui distingueva le tre tipologie di legami.
La forza del legame debole deriva dal fatto che le persone che hanno questo tipo di relazione fanno parte di cerchie di conoscenti diverse e quindi hanno accesso a informazioni diverse rispetto a quelle di cui fruirebbero se facessero riferimento solo alle persone con cui hanno un rapporto più stretto. I numerosi legami deboli diventano in questo senso delle porte di accesso a nuovi prodotti, nuove relazioni, nuove informazioni con cui altrimenti non potremmo avere contatto.
L’amicizia è un legame forte o debole?
A differenza dei vari tipi di legami precedentemente citati, che definiscono delle classificazioni piuttosto precise, l’amicizia ha una definizione molto sfuggente. Molto diverso è infatti il rapporto tra due amici che si conoscono da 20 anni e quelli che si conoscono da 2 anni; differente è l’amico da cui eri inseparabile quando eri piccolo ma che ora vedi una volta all’anno; oppure ancora gli amici con cui parli solo a scuola o a lavoro sono diversi da quelli che conoscono la tua intera famiglia. Sono così chiaramente classificabili all’interno dei legami forti o di quelli deboli?
Come detto all’inizio, dare una definizione completa e universale del significato di amicizia non è facile. Una domanda che però sicuramente accomuna tutti da un po’ di anni è se i social abbiano migliorato o peggiorato i rapporti. La mia tesi è che i social abbiano modificato le amicizie, sia positivamente che negativamente.
Mi spiegherò meglio facendo due esempi, molto pratici e quotidiani, in parte per compensare questa introduzione molto accademica e teorica, ma soprattutto perché nella loro semplicità rappresentano perfettamente la duplice natura dei social: uno strumento positivo e un’arma nociva.
Primo esempio: problematiche e possibilità delle interazioni sui social
I grandi assenti nelle chat sui social
È innegabile che in tutte le interazioni online manchino alcune componenti fondamentali, la cui assenza a volte porta a fraintendimenti non proprio piacevoli. Infatti, non parliamo solo attraverso le parole, ma arricchiamo le conversazioni di linguaggi non verbali, toni di voce, sguardi che ne determinano mille sfumature diverse. Se, spesso, i libri sono meglio dei film perché la propria immaginazione stimola scenari molto più ricchi, lo stesso non si può dire di un messaggio sui social – inteso come l’adattamento scritto di un pensiero o di un’alternativa a una conversazione dal vivo. Certo, esistono le emoji, ma anche quelle hanno dei significati estremamente diversificati; abbiamo tutti quell’amico che una volta ha utilizzato l’emoji che piange dal ridere in situazioni drammatiche, pensando che fosse una faccina triste.
Allo stesso tempo, penso anche che i social siano delle risorse estremamente utili per poter parlare con chiunque e ovunque, a costo e velocità praticamente azzerati. Sostengo piuttosto che sia un nuovo modo di comunicare, integrativo a quello faccia a faccia, ma che non debba sostituirlo. I social possono infatti integrare le amicizie e fornire ulteriori modalità di interazione. Pensando ad esempio ai meme o ai video divertenti che si condividono, anche questi sono una manifestazione d’affetto tutta digitale, che non vuol dire nient’altro che “Ho visto questo contenuto e ho pensato a te”.
Nuovi tipi di legami
Tornando alla classificazione dei legami, potremmo dire i social network non vengono tanto utilizzati per creare nuove amicizie, bensì a sostegno di legami già avviati. Nel caso dei legami forti, i social diventano un nuovo canale di consolidamento della relazione; mentre per i legami deboli costituiscono un collegamento sempre presente e che potrebbe essere rafforzato.
A tal proposito, infatti, si parla di due nuove tipologie di legami, proprie del web:
- legame latente: definiti da Haythornthwaite come contatti sociali “potenziali”, ovvero disponibili ma non ancora attivati (ad esempio, le persone iscritte a un social ma di cui non siamo ancora followers o amici)
- legame dormiente: definiti da Hampton come quei rapporti iniziati nella vita offline, ma che possono essere recuperati e approfonditi solo grazie all’utilizzo dei social network.
Secondo esempio: phubbing, scrolling ed esclusione sociale
In secondo luogo, l’amicizia è anche fatta di esperienze vissute insieme e ricordi legati ad esse. Tempo condiviso ed esperienze irripetibili, che però molto spesso vengono inquinate dall’utilizzo dello smartphone e dalla mania di condivisione sui social. Classico esempio, i concerti in cui si passa il 90% del tempo a vedere l’esibizione ripresa sullo schermo del proprio telefono. Ma anche nelle situazioni più private il digitale si insinua in modo forse non costante, ma sempre potenzialmente presente. Quanto spesso capita, mentre si parla con un amico, che la sua attenzione venga catturata da una semplice notifica? O addirittura il discorso interrotto perché deve rispondere a un messaggio?
Phubbing
Dinamiche a cui siamo talmente abituati che forse non ci sembrano più così gravi, ma chiediamoci se una conversazione online sia davvero più importante di un’interazione umana a tu per tu con la persona che si ha di fronte. C’è una chiara terminologia per questo fenomeno: phubbing (dall’unione di phone e snubbing), che indica proprio l’atto di trascurare il proprio interlocutore in un contesto sociale concentrandosi sul proprio smartphone.
Uno studio condotto da un’équipe di psicologi dell’Università del Kent ha portato alla conclusione che “il phubbing è una forma specifica di esclusione sociale che minaccia i bisogni interpersonali fondamentali. È questa un’esclusione sociale, simile all’ostracismo, che porta chi si sente emarginato a percepirsi pure come “inferiore” […] Proprio come snobbare, il phubbing ferisce i sentimenti delle persone e li fa sentire in difetto con se stessi”.
Scrolling
Visto che nessuno degli smartphone user è esente dal comportamento da phubber, possiamo tutti concordare sul fatto che il phubbing sia perdonabile in alcune occasioni – per esempio, quando bisogna rispondere a una chiamata o a un messaggio, a patto che non sia un’interruzione continua. Più condannabile è invece il deliberato scrolling sui social del tuo interlocutore mentre stai cercando di fare una conversazione; in questo caso è come se stesse proprio scegliendo di ignorarti, ritenendo più importante qualche post digitale (che potrebbe guardare anche dopo) piuttosto che la tua concreta presenza. È ormai confermato che il multitasking non esiste quindi, se stai leggendo un post su Instagram mentre ti sto parlando, vuol dire semplicemente che non mi stai ascoltando.
Tornando sempre al discorso dei legami, i social sono quindi uno strumento potentissimo per creare nuove relazioni e arricchire di nuovi canali di dialogo quelle più tradizionali. Diventano però una vera e propria arma che nuoce agli altri e a noi quando diamo più importanza e attenzione allo schermo rispetto che al volto e alle parole della persona che abbiamo di fronte.
La necessità di responsabilità
In conclusione, è difficile – se non impossibile – definire un’assoluta positività o nocività degli effetti dei social. Se a volte rovinano le conversazioni fra amici, a volte invece permettono la loro esistenza (pensando per esempio al valido sostegno che possono offrire a persone che hanno importanti difficoltà relazionali) oppure arricchiscono la relazione di nuovi modi di comunicare e la preziosa possibilità di essere sempre in contatto.
Se quindi volessimo definire una conclusione certa, potremmo dire che i social hanno sicuramente modificato il nostro modo di comportarci in una relazione d’amicizia. I social non sono buoni o cattivi; siamo noi che dobbiamo scegliere se utilizzarli come uno strumento positivo oppure un’arma nociva.
In altre parole, sta semplicemente a noi avere coscienza di come e quanto utilizzarli, prendendoci finalmente la responsabilità di avere in mano un attrezzo potentissimo, non solo nelle nostre vite digitali ma sempre di più nel nostro mondo reale.
Bibliografia e sitografia
A. Miconi “Teorie e pratiche del web”, Il Mulino, 2018.
https://www.reliantsproject.com/
https://www.psicologiacontemporanea.it/blog/come-cambiata-lamicizia-nellera-dei-social-network/
Sono Alessia Zardetto, una studentessa del primo anno del corso magistrale di Web Marketing e Communication presso la sede IUSVE di Mestre. Durante la mia laurea triennale alla Università IULM ho frequentato un corso di sociologia, che mi ha permesso di aprire gli occhi su quelle che sono le implicazioni sociologiche del digitale anche nelle nostre relazioni “reali”. Ho incontrato poi alla IUSVE il corso di Psicopedagogia degli stili di vita che mi ha permesso di rispolverare alcune di queste tematiche, che ho voluto approfondire e arricchire di riflessioni personali in questo articolo.
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