Oggi i giovani sono sempre più connessi con il mondo attraverso i loro telefoni cellulari, tanto che l’uso eccessivo di questi dispositivi sta diventando un problema crescente. La dipendenza dai telefoni può avere conseguenze negative sulla salute fisica e mentale, nonché sulla vita sociale e relazionale dei giovani. In questo testo, esploreremo le cause della dipendenza dai telefoni, le conseguenze che essa può avere, e le soluzioni per gestirla e ridurla. Le statistiche mostrano che i giovani trascorrono molto tempo sul proprio telefono, sia per comunicare con gli amici e la famiglia, sia per accedere ai contenuti di intrattenimento e ai social media. Ad esempio, secondo una ricerca, gli adolescenti trascorrono in media circa 7 ore al giorno utilizzando i propri dispositivi elettronici, tra cui telefoni cellulari, tablet e computer. Un altro studio ha rilevato che il 92% degli adolescenti usa il proprio telefono per inviare messaggi di testo e chiamare amici e familiari, mentre il 90% accede ai social media quotidianamente. Questi dati dimostrano che l’uso dei telefoni è diventato una parte integrante della vita quotidiana dei giovani e che può essere difficile per loro staccarsene. Il contesto attuale: come i telefoni stanno cambiando il modo in cui i giovani vivono e si relazionano. I telefoni cellulari e i social media sono diventati una parte integrante della vita quotidiana dei giovani, offrendo loro una connessione costante con il mondo e con le persone intorno a loro. Tuttavia, questa connessione continua ha anche creato una dipendenza dai dispositivi che può avere conseguenze negative sulla loro vita. I giovani di oggi sono cresciuti in un mondo digitale e hanno sempre avuto accesso ai telefoni e a Internet. Per molti di loro, i dispositivi elettronici sono diventati un’estensione della loro personalità e un mezzo per comunicare, socializzare e accedere alle informazioni. Tuttavia, questa connessione continua ha anche creato una dipendenza dai dispositivi che può avere conseguenze negative sulla loro vita. I telefoni cellulari stanno cambiando il modo in cui i giovani si relazionano tra di loro e con gli adulti. Ad esempio, l’uso eccessivo dei telefoni può influire sulla capacità dei giovani di comunicare faccia a faccia, di stabilire relazioni sane e significative, e di sviluppare abilità sociali. Inoltre, l’uso eccessivo dei telefoni può anche limitare la loro capacità di partecipare a attività e interessi al di fuori del mondo digitale, come lo sport, la musica, l’arte e il volontariato. Inoltre, l’uso eccessivo dei telefoni può anche avere effetti negativi sulla loro salute mentale e fisica, come ansia, depressione, problemi di sonno e dolori al collo e alla schiena. E’ importante che i giovani imparino a raggiungere un equilibrio nell’utilizzo dei telefoni per garantire una vita sana e soddisfacente. Questo testo esplorerà come la dipendenza dai telefoni sta influendo sulla vita dei giovani oggi e come è necessario gestirla per vivere una vita equilibrata
La condizione dell’always on, questa iperconnessione, ci sta facendo progressivamente regredire. Questo si sta verificando in due macroaree: la capacità di concentrarsi e il quoziente intellettivo. Per quanto riguarda la prima, Nicholas Carr sostiene che la quantità di stimoli messa in circolo dalla rete renda molto più difficile concentrarsi. Secondo la nozione di neuroplasticità, la rete starebbe promuovendo pratiche di multitasking e il cervello degli utenti si starebbe modificando di conseguenza. Internet infatti impedisce un atteggiamento concentrato e riflessivo, poiché l’utente è soggetto a troppi compiti e stimoli. Gli studi affermano che stiamo bruciando neuroni per il troppo multitasking. Anche il nostro QI sta risentendo di questa connettività assidua. Stiamo assistendo a quello che è stato definito “effetto Flynn capovolto”. Per “effetto Flynn” s’intende l’aumento del quoziente intellettivo medio della popolazione nel corso degli anni e questa tendenza si è verificata fino agli anni duemila, quando abbiamo assistito ad una brusca inversione di tendenza, la quale ha dato luogo, appunto, ad un “effetto Flynn capovolto”. Sostanzialmente, stiamo diventando più stupidi rispetto al passato. La continua connessione a cui siamo esposti diminuisce la nostra capacità di elaborare pensieri critici, di concentrarci, di dialogare faccia a faccia e inoltre influisce negativamente sulla nostra memoria. Inoltre, il tempo trascorso online ha comportato una progressiva riduzione del tempo che solitamente veniva dedicato ad attività più redditizie dal punto di vista neuronale: l’esempio più calzante è la lettura. Oggi, soprattutto tra i giovani, non si legge praticamente più, e questo accade perché la tecnologia ha preso il sopravvento, permettendo di avere tutto quello di cui necessitiamo in pochi secondi. Inoltre, subentra anche la “questione moda”: specialmente tra gli adolescenti, chi legge è considerato uno sfigato, un eccentrico, una persona fuori dal mondo. Questa credenza non fa che alimentare la fuga dai libri, dalla ricerca e, di conseguenza, dallo sviluppo di un pensiero critico. L’allontanamento da tutte le altre attività ci riconduce agli smartphone, al caldo e confortevole involucro che questi costruiscono intorno a noi: un involucro che, sotto quel comfort apparente, ci isola, uccide la nostra capacità relazionale e ci espone al fattore più pericoloso in assoluto: la dipendenza.
Digital addiction: la nuova droga a base di dopamina
Si tratta di una nuova forma di assuefazione, meglio nota come “digital addiction”, ovvero la dipendenza dai dispositivi digitali. È una dipendenza in tutto e per tutto paragonabile a quella da alcool e droghe pesanti. Più precisamente, gli smartphone ci conducono a mettere in atto comportamenti compulsivi che solitamente notiamo nei meccanismi delle slot machine. Come disse Tristan Harris (ex responsabile della sezione etica di Google), lo smartphone è a tutti gli effetti una slot machine: a chi di noi non è capitato di aggiornare ripetutamente la bacheca di Facebook o il feed di Instagram? Ma che senso ha questo comportamento ossessivo e compulsivo? Perché connettersi su Instagram ogni due minuti? Perché aggiornare continuamente la bacheca? Questa ossessione ha un nome: si chiama FOMO, acronimo di “Fear of missing out”, ovvero la paura di essere tagliati fuori. Si tratta di una forma di disagio sociale che consiste nel timore di venire esclusi o di perdersi qualcosa. È una forma di dipendenza che si manifesta spesso nel controllo delle vite altrui per sopperire alla propria insicurezza, solitudine ed insoddisfazione personale. Ma cercando di sopperire alle proprie mancanze, chi cade in questo vortice è spesso vittima del tranello dei social. Questi agiscono proprio come le più classiche tipologie di droga: forniscono uno status apparente di benessere, generato in questo caso dalla sensazione di compagnia, alla quale segue uno stato di depressione ancora maggiore. Questa dipendenza è regolata dalla dopamina. Si tratta dello stesso neurotrasmettitore che entra in gioco per le patologie derivanti da abuso di alcool e droghe. La dopamina è un neurotrasmettitore coinvolto nel senso del piacere ed è ritenuto centrale nel meccanismo che crea una modifica del comportamento in risposta all’ottenimento di ricompense. Questo neurotrasmettitore determina la dipendenza da social network. Quindi, mi piace e commenti creano sensazioni positive, proprio perché il cervello rilascia la dopamina. Quando questo non avviene, gli individui provano ansia e solitudine: a quel punto riaprono la piattaforma, postano un selfie, compiono stalkerismo su profili altrui o continuano a passare da una piattaforma all’altra. In sostanza, chi è dipendente da social network è anche un tossico di dopamina.
Ansia, insonnia e… suicidio
Chi più e chi meno, siamo tutti quanti assuefatti da una tipologia di droga sulla quale le regolamentazioni sono pressoché inesistenti, e a rimetterci maggiormente, come al solito, sono i più giovani. Secondo uno studio effettuato dalla London Business School of Economics and Politica Sciences che ha coinvolto 37 giovani di diverse nazionalità, è emerso come le interazioni con i nostri smartphone avvengano principalmente senza alcuna ragione: “per molti controllare il proprio smartphone è un bisogno maggiore che utilizzarlo per comunicare”, afferma Saadi Lahlou, uno degli autori della ricerca. Dalla ricerca emerge anche che solo l’1% delle volte che prendiamo in mano lo smartphone lo facciamo per rispondere o effettuare una chiamata. Questo a conferma di come la funzione principale per cui era nato il telefono sia ormai passata in secondo piano. Molto più frequenti sono invece i check su Instagram e Facebook, che avvengono una volta su tre quando estraiamo dalla tasca il nostro telefono. Insomma, la maggior parte delle volte in cui abbiamo in mano il telefono, un giretto esplorativo sulle piattaforme social finiamo per farlo. Se analizziamo le conseguenze di questa vera e propria dipendenza, scopriremo che il primo effetto collaterale è l’insonnia. Oggi, soprattutto tra gli adolescenti, sono in forte aumento i casi in cui si riscontrano difficoltà nell’addormentarsi o problematiche legate al sonno. Uno studio sull’insonnia, effettuato dal Laboratorio Adolescenza e Istituto di Ricerca, ha confermato come gli adolescenti dormano molto meno rispetto a quanto sarebbe consigliato alla loro età. La causa di queste problematiche sarebbe la costante connessione ai social e ad internet in generale. Su un campione di 2000 adolescenti, addirittura il 66 % afferma di risvegliarsi nel bel mezzo della notte senza riuscire più ad addormentarsi. E questo è uno dei fattori che alimenta il circolo vizioso: quando i ragazzi non riescono più ad addormentarsi, spesso si rituffano a capo fitto nel mondo virtuale. Sostanzialmente, ciò che si verifica è un continuo “flipper” fra quattro stati particolarmente pericolosi, nella fattispecie per i più giovani: ansia, dipendenza, insonnia e depressione. Questi stati si alimentano reciprocamente, dando vita ad un ciclo senza fine. Sempre più spesso le vittime arrivano a sviluppare patologie psichiche e nei casi più estremi si arriva al suicidio. Uno tra i tanti casi è quello di Chloe Davison, che si tolse la vita nel gennaio del 2020 dopo essere stata letteralmente divorata dai social. Aveva solo 19 anni. La sorella, Jade, ha rivelato che Chloe era arrivata a “non sentirsi a posto con sé stessa a meno che non ricevesse un numero sufficiente di likes”. La diciannovenne era da tempo diventata dipendente dai social network e aveva sviluppato un forte stato di ansia, il quale sfociava in un costante bisogno di approvazione e rassicurazione virtuale. La sorella, così come i genitori, sono fermamente convinti che Facebook e Snapchat siano responsabili della morte della ragazza. Questo è solo uno dei tanti casi in cui la dipendenza da social network e gli stati che ne conseguono, conducono al suicidio.
Narcisismo ed esposizione del sé
È evidente come la causa di queste morti sia una delle tendenze del nuovo millennio: la crescente esposizione del sé, che sfocia nel narcisismo. Tradizionalmente, definiamo il narcisismo come una condizione nella quale l’individuo mostra egoismo, vanità e presunzione. Nonostante il narcisismo possa avere delle accezioni positive, come l’amore per sé stessi e l’autostima, tutto ciò viene meno quando si sfocia nel bisogno estremo di attenzioni, di apprezzamento e di gratificazione esterna. Col dilagare del web, la proliferazione di comportamenti narcisistici ha riscontrato un’impennata. Si parla addirittura di un’epidemia di narcisismo digitale.
Tra selfie ed oversharing
Solitamente il narcisismo emerge sotto forma di una cura estrema e quasi maniacale della propria immagine. In particolare, si associa una condizione di narcisismo problematico a coloro che abusano del fenomeno del selfie. Il selfie è una foto scattata a sé stessi che viene poi condivisa sui social network. Nel corso di uno studio condotto dagli Atenei di Swansea e Milano, è stato riscontrato come due terzi dei soggetti coinvolti (in quel caso 74 persone di età compresa tra i 18 e i 34 anni) utilizzasse i social principalmente per postare selfie. Questo abuso del selfie non fa altro che incrementare il desiderio dei soggetti di essere al centro dell’attenzione. Inoltre, secondo la dottoressa Buffardi (dell’University of Georgia), autrice di uno studio condotto su 130 profili facebook, i narcisisti sono soliti pubblicare solamente le foto in cui appaiono meglio. Al contrario, i soggetti che non soffrono di narcisismo, solitamente non operano grandi distinzioni riguardo ciò che andranno a pubblicare. Questa attenzione maniacale ai dettagli della propria persona porta in molti casi all’insoddisfazione, all’ansia e ad un monitoraggio eccessivo e spregiudicato dell’approvazione altrui. In molti casi, i narcisisti digitali restano connessi per ore ad aggiornare il feed di instagram in attesa di nuovi “cuoricini”. Se il numero non raggiunge le aspettative, subentra la frustrazione. Parallelo al fenomeno del selfie è quello dell’oversharing. Per oversharing si intende la pubblicazione o l’esibizione eccessiva di momenti anche intimi della propria vita quotidiana. Si tratta di uno dei disagi più comuni causati dai social media. È esattamente quello che accade a coloro che sono soliti immortalare ogni singola cosa che vedono, fanno, sentono o anche leggono. Sono coloro che postano talmente tante stories che difficilmente queste si riescono a contare. Ma cosa spinge l’essere umano ad una tale condivisione ed esibizione della propria vita privata? Secondo due studiosi di Harvard, Diana Tamir e Jason Mitchell, comunicare agli altri qualcosa di sé stessi è gratificante, o almeno, lo è per il nostro cervello. Quello che i due autori affermano è che, quando parliamo di noi agli altri, attiviamo gli stessi recettori che entrano in gioco per i due piaceri primari dell’esistenza: il cibo e il sesso. Questo meccanismo, se sommato ad una condizione in cui riceviamo grande approvazione, dà luogo ad una propensione a ripetere il comportamento.
La mercificazione dei rapporti e il capitalismo emozionale
L’oversharing sta dilagando imperterrito nella società dei like e questo è ben visibile all’interno del panorama degli influencer. Questi soggetti hanno trasformato l’oversharing in un vero e proprio mestiere, dando in pasto ai followers tutta la propria vita. Molto spesso, a risentire di questa pratica dilagante sono i figli degli influencers, talvolta esposti come fossero trofei. Emblematico è il caso di Leone, l’ormai noto primogenito di Fedez e Chiara Ferragni. Il piccolo è forse il più famoso “baby influencer” in circolazione. Si tratta del più classico dei nativi digitali, con la differenza che, essendo figlio di due celebrità, è stato esposto sin dalla nascita agli occhi di milioni di followers. Cosa significa tutto ciò? Come può un figlio essere usato ed esposto come un mezzo per acquisire maggior notorietà? Questo oggi è possibile. Ed è possibile perché, come sostenuto dalla famosa sociologa Eva Illouz, viviamo nel regime del capitalismo emozionale. Questo significa che avviene un congelamento delle sensazioni, tale per cui i ragionamenti emotivi si distaccano dalla sfera amorosa per approdare a quella di natura finanziaria e della mercificazione. La società dei consumi, diventata poi società dell’immagine e dell’apparire, non può rinunciare a vendere. Tutto viene mercificato e tutto diviene vendibile. E in una società che ha sostituito il calore delle relazioni umane con l’interesse mercantilistico, non è certo una sorpresa vedere la nascita di un figlio venire messa in vetrina.
Le conseguenze dell’iperconnessione
Tante, forse anche troppe le conseguenze di questa riprogrammazione del panorama della società. Troppe perché probabilmente non eravamo pronti a cambiamenti tanto netti quanto repentini. Troppe perché stiamo anteponendo la comodità del connettersi al gusto di essere davvero connessi. Troppe perché i benefici che possiamo ricavare da questo nuovo modus vivendi sono sicuramente meno dei problemi che ne conseguono. Durante una lezione alla Business School di Stanford, Chamath Palihapitiya, uno degli storici inventori di Facebook, ha dichiarato: “mi sento tremendamente colpevole. Penso che quelli che abbiamo creato siano strumenti che fanno a pezzi il tessuto della società e il modo in cui funziona.” L’ex manager ha chiesto inoltre ai suoi studenti di “prendersi una pausa” dalle piattaforme. Poi li ha invitati a ragionare su come la dopamina e la “febbre da like” regolino oggi le nostre azioni online. Questo ultimo punto è talmente veritiero da essere condiviso dalle piattaforme stesse. A testimonianza di ciò, Instagram ha introdotto un blocco alla visualizzazione del numero di like, proprio per tentare di bloccare questa “epidemia del consenso”. In uno studio dell’Associated Press-NORC Center for Public Affairs Research, il 60% degli adolescenti intervistati afferma che talvolta è costretto ad effettuare delle pause volontarie dai social media. Questo allarme da parte delle piattaforme è scattato nel momento in cui ci si è accorti dell’impatto negativo che questo abuso stava avendo sugli utenti.
Narcisismo, insoddisfazione personale, ansia, FOMO, mercificazione dei rapporti, invidia.
Questo è quello che accade grazie alla tanto acclamata società dei like. Questo è quello che è seguito all’ultima evoluzione della società dei consumi. Una società dove l’apparire ha sostituito l’essere. Una società dove non ci gustiamo ciò che facciamo, perché siamo troppo impegnati a valutare il livello di consenso che potrebbe derivarne. Una società da cui difficilmente si tornerà indietro. È stato inoltre dimostrato, che chi passa molto tempo sui social network è generalmente più impulsivo. I devices digitali e in particolare le piattaforme social spingono le persone a predisporsi ad una gratificazione a breve termine. Le piccole ricompense rilasciate sotto forma di likes causano una riduzione dell’autocontrollo e una maggiore probabilità di esporsi a scelte negative e dannose. Queste scelte dannose si materializzano spesso nell’uso di droghe, nell’abuso di alcool o nella dipendenza da gioco d’azzardo.
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