Il digitale ha portato ad un dualismo sociale: abbiamo infinite liste di amici virtuali, ma ci sentiamo soli. Siamo perennemente connessi, parliamo con chiunque in qualsiasi momento. Eppure quando blocchiamo lo smartphone, ci pervade un senso di solitudine. L’origine di questo fenomeno risiede in una combinazione tra il nostro rapporto con la tecnologia e la vulnerabilità umana. Uno schermo ci protegge da immediate emozioni negative, ma ne genera altre più profonde e radicate.

Futurama – Stagione 3, episodio 15, Sono uscito con un robot
Attraverso un sito su Internet, Fry inizia ad uscire con un robot, le cui sembianze e personalità appartengono alla celebrità del passato Lucy Liu, tanto da sembrare una copia dell’attrice in vita. Fry si innamora di lei e ignora i consigli degli amici Leela e Bender, che cercano di fargli capire quanto sia irragionevole. Non riuscendo a fargli cambiare idea, si recano nella sede della società che gestisce il sito e scoprono che possedevano illegalmente la testa di Lucy. La rubano, ma così i tre amici si trovano a doversi scontrare con un’armata di Liu-bot inviata dai responsabili del sito.

Un episodio che avrà suscitato umorismo e risate in chi lo ha visto. In questo contesto però verrà usato come spunto per una riflessione più ampia. Troviamo l’inconsueto, ma già appartenente al nostro immaginario, rapporto tra un robot e un essere umano, nel quale quest’ultimo predilige il primo alle persone fisiche e lo tratta come tale. Un comportamento ai nostri occhi estremo e bizzarro. Tuttavia siamo sicuri di non adottarlo già nella nostra quotidianità? Non è forse già presente una predilezione verso la tecnologia rispetto ai rapporti fisici?

L’evoluzione della socialità nell’era digitale

Ripercorriamo brevemente le tappe che ci aiutano a capire come i computer siano entrati nelle nostre vite e come sia cambiata in noi la loro percezione, tanto da influire sui nostri rapporti interpersonali.

Negli anni ‘80 del Novecento i primi personal computer scatenano un gran fermento intellettuale. Viene sperimentata la programmazione e si muovono i primi passi nell’intelligenza artificiale. Cominciano a diffondersi i primi videogiochi come Tetris, Pac-man o Bubble Bobble. Il personal computer è avvolto in un’atmosfera di fascino e speranza per il futuro.

Negli anni ‘90 nascono i mondi virtuali. I rapporti interpersonali trovano nel computer un mediatore. È possibile costruire una vita parallela, nella quale l’identità viene determinata dall’individuo stesso. All’alba di una significativa trasformazione sulla nostra percezione di noi stessi e dell’altro, l’ottimismo dei computer comincia a essere messo in dubbio.

A metà degli anni ’90, ci si trova di fronte a due strade ben distinte: da una parte la tecnologia cerca di esserci amica offrendosi di svolgere molte mansioni al posto nostro; dall’altra la connessione Internet tramite dispositivi mobili non fa che sviluppare ancora di più i nostri alter ego virtuali.

Arriviamo ad oggi. La tecnologia rappresenta la soluzione semplice a problemi complessi, un atteggiamento tanto ricercato per natura dell’essere umano. Anche nel caso in cui l’eccesso di tecnologia ci renda ansiosi e sovraccaricati, lei ci offrirà delle soluzioni per rilassarci, divertirci e organizzaci. Ci lega, mentre promette di liberarci. Entriamo così in un profondo rapporto di dipendenza che si rafforza di anno in anno. Odiernamente infatti non riusciremmo mai ad immaginare le nostre vite senza tecnologia.

Conseguenze relazionali

Lo stesso meccanismo viene messo in atto con i rapporti interpersonali: il computer li semplifica, come ha fatto con tanti altri lati delle nostre vite. Più nello specifico, la tecnologia riesce in questo ambito a soddisfare la vulnerabilità umana. Ci offre infatti la possibilità di rimanere in contatto con altre persone, senza però i vincoli che comporta un rapporto vero e proprio. Un’illusione di compagnia, la cui mancanza di autenticità viene compensata dall’assenza di rischi emotivi. Il risultato sono infinite liste di amici virtuali, ma di nessuno si sperimenta la parte più segreta. Ci sentiamo così gradualmente più soli. In modo proporzionale e reciproco però l’intimità ci spaventa.

Le persone deludono, si allontanano, hanno pretese. La tecnologia ha eliminato questi fattori negativi, restituendoci la possibilità di vivere delle amicizie “protette”. Ancora una volta, una soluzione facile ad un problema complesso.

Questo è il motivo per cui, anche quando non ci sono ostacoli fisici, scegliamo la tastiera alla voce umana. Preferiamo scrivere un messaggio invece che suonare un campanello; il luogo per incontrarsi non è più la piazza ma il gruppo su WhatsApp; nei mezzi pubblici restiamo ancorati agli schermi, pur di non parlare con chi è seduto affianco a noi; prediligiamo un’amicizia su un social network piuttosto che una presentazione faccia a faccia; si mostra il proprio interesse attraverso reazioni a foto postate nelle diverse piattaforme, perché è meglio un like non ricambiato ad un “no” detto di persona.

Inizialmente le piattaforme nacquero per mantenere quelle relazioni che per una questione di distanza si sarebbero andate a perdere. Successivamente si cercava qualcuno online dopo aver avuto modo di conoscerlo nella vita reale. Ora invece l’ordine si è rovesciato: ogni rapporto nella vita reale deve necessariamente prima passare per una comunicazione mediata dalla tecnologia.

Protetti, soli, diversi

Ora forse ci è più facile comprendere la scelta di Fry. Il motivo per cui potremmo preferire i robot agli esseri umani è lo stesso per cui scegliamo le comunicazioni via schermo: una relazione semplificata, controllata, programmata per non ferirti o quantomeno dotata della distanza necessaria per non deluderti. Tuttavia perché ciò sia possibile, l’intimità rimane ai margini. Si riduce ad un desiderio radicato e silenzioso, poiché scegliamo di rinunciare ai mezzi necessari per poterlo soddisfare. Infatti per creare un rapporto empatico bisogna mostrarsi per ciò che si è nella propria interezza, accettando il rischio di non essere compresi. Esporsi e quindi essere vulnerabili è qualcosa di troppo complicato in una società che tende a semplificare i suoi processi attraverso la tecnologia. Così l’autenticità lascia il posto alla simulazione e diventa ciò che la sessualità era nell’epoca vittoriana: tabù e attrazione, minaccia e ossessione.

Il tutto si riversa in un sentimento di profonda solitudine, destinato a crescere esponenzialmente. L’estrema espressione della confusione tra desiderio di intimità e solitudine si raggiunge con la scelta di un robot come partner sentimentale. Tuttavia le radici possono affondare nell’iscrizione ad un social network. I computer e la nascita delle piattaforme hanno anche portato inevitabilmente al ripensamento e alla ricostruzione della nostra identità. Spesso questo processo risulta inconsapevole. Mostriamo la parte migliore di noi stessi perché ci è concesso di omettere i difetti. Si sviluppa una cultura della simulazione, dove sfuma il confine tra chi siamo e chi vorremmo essere. Senza accorgercene, ci protendiamo verso un ideale identitario. Viene messo in atto un meccanismo di compensazione: creiamo corpi, case, lavori, storie d’amore, amicizie e tutto quello che nella vita reale non riusciamo ad ottenere o abbiamo paura di raggiungere.

L’illusione di non essere soli

Accettiamo dei legami insufficienti come gli unici possibili, con la scusa che non c’è tempo per qualcosa di più complesso. La ricerca della semplificazione di un processo rimane una costante umana anche in ambito sociale. Quindi se razionalmente una relazione più facile ci crea qualche perplessità, alla fine diventa quello che vogliamo. Accade che all’improvviso, seppur immersi in ampie comunità virtuali, ci sentiamo soli. Il motivo è un’intimità ridotta ad una connessione semplice e scarsamente empatica. Abbiamo tanti “amici” con cui scambiare messaggi, ma nessuno che chiameremmo nel momento del bisogno. Un rapporto non ha più come metro di giudizio l’intimità vera e propria, ma si riduce a quante foto insieme vengono postate o ad uno status su Facebook. Consideriamo la vita virtuale come un’espansione, ma accogliamo le sue limitazioni. Sviluppiamo con piacere dei legami “deboli”, che a lungo andare ci fanno sentire svuotati.

Cambia non solo la percezione di noi stessi, ma anche quella di chi ci circonda. Online coltiviamo delle relazioni semplici e proiettiamo queste basse aspettative anche nella vita reale. Si è sminuita l’esperienza dell’altro, mentre la tecnologia è diventata il punto di riferimento: nulla potrà andare male finché ci affianca.
Ci illudiamo che per non essere soli sia sufficiente essere connessi. Ne conseguono ansie da disconnessione e particolari condizioni psicologiche legate ad essa. Esempio è la Nomofobia (No Mobile Phone Phobia), ovvero la paura di stare lontani dal proprio smartphone e dal mondo virtuale. Si parla anche di FOMO (Fear of missing out): un senso di disagio che nasce dall’osservazione di altri profili, in cui chi li possiede sta svolgendo qualcosa che noi invece ci stiamo perdendo. La soluzione sembra essere il rimanere perennemente collegati. Ci prendiamo cura della rete, mentre la rete ci insegna ad aver bisogno di lei.

La solitudine cambia le nostre vite

È importante non sottovalutare la solitudine. Si può associare ad una malattia, tanto contagiosa quanto dolorosa. Quest’ultimo aggettivo le viene attribuito in seguito a ricerche neurobiologiche. È stato dimostrato infatti come il modulo celebrale responsabile della segnalazione del dolore e della solitudine sia lo stesso. Occorre però fare una precisazione. Essere soli è una condizione oggettiva e meno emotivamente impattante del sentirsi soli. Quest’ultima è una percezione soggettiva. Poiché ciò che la mente crede per noi esiste, possiamo soffrire di solitudine pur essendo circondati da persone. A fare la differenza è la comprensione profonda, l’ascolto attento, l’aiuto incondizionato dell’altro. Elementi caratteristici dei rapporti duraturi che una tecnologia, come un robot, non potrà mai fornire. La solitudine è anche causa di stress. L’uomo si nutre per natura di legami sociali, ma quando queste non sono sufficientemente di qualità, nasce un senso di angoscia e sovraffaticamento psicofisico.

Una situazione che fa accrescere l’ansia dei rischi di una relazione autentica, quando essa stessa è la soluzione al problema. La solitudine presenta anche dei lati positivi. Ci può sembrare un’affermazione bizzarra, ma si pensi come l’assenza di persone porti la quiete necessaria a far emergere la propria voce. L’isolamento è anche utile perché induce alla riflessione. Quando entra in gioco però la connessione perenne, le osservazioni personali vengono ostacolate. Se allontanassimo il rumore delle comunicazioni del nostro smartphone, ci ritaglieremmo un momento di intimità individuale per affrontare meglio quella con gli altri. Capire le nostre paure, i nostri punti di forza, notare i particolari che ci caratterizzano. Un rapporto introspettivo che potrebbe aiutarci ad assumere la consapevolezza necessaria nelle relazioni con gli altri e con la tecnologia. Finché essere soli rappresenta un problema invece che un’opportunità, cercheremo di risolverlo connettendoci. Con questo gesto però ci isoleremo ancora di più.

Uno slancio verso le relazioni autentiche

La situazione in cui ci troviamo dunque è complicata: vogliamo dei rapporti profondi, ma ne abbiamo paura. Desideriamo l’intimità, ma noi per primi abbiamo il timore di mostrarci. Rispondiamo alla solitudine aumentando gli amici virtuali, inconsapevoli di andare in realtà ad aggravare la nostra insoddisfazione sociale. È delineabile infatti una corrispondenza diretta tra il numero dei contenuti postati e il relativo grado di felicità del loro autore. Invertire la situazione e volersi rimmergere nelle comunicazioni faccia a faccia, porterebbe non poche complicazioni. L’uso prolungato della tecnologia infatti ha “atrofizzato” le nostre capacità di instaurare rapporti significativi e talvolta duraturi. La differenza si può notare soprattutto in termini generazionali. Non a caso i nativi digitali hanno delle capacità relazionali differenti rispetto ai loro nonni. È importante però fin dalla più tenera età incoraggiare l’apprendimento delle competenze sociali: i segnali non verbali e paraverbali che contribuiscono allo sviluppo dell’empatia.

L’uomo per natura non prova felicità se segue uno stile di vita egocentrico, tipico delle piattaforme. Ha bisogno di stare con altri e in particolare fare qualcosa per gli altri.

La tecnologia tende a riferirsi a noi come ad individui singoli più che ad una comunità. Colma la carenza di socialità che essa stessa ha creato con delle connessioni virtuali. Ci fornisce delle soluzioni semplici con l’effetto di legarci ancora di più a lei. Un processo che funziona molto bene: la semplificazione della dimensione sociale è stata accolta e consolidata. Non si possono però non vedere i suoi effetti collaterali: la mancanza di intimità e la conseguente solitudine. La tecnologia troverà il modo di modificare le connessioni che oggi ci offre per compensare questa sensazione? Arriveremo a scegliere i robot per rifugiarci in relazioni sicure? Oppure la dimensione empatica e autentica dell’essere umano continuerà a sfumarsi fino a scomparire?

Fonti

Spitzer M., Connessi e isolati. Un’epidemia silenziosa, Corbaccio, 2018

Turkle S., Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri, Piccola Biblioteca Einaudi Ns, 2019

https://www.guidapsicologi.it/articoli/perche-mi-sento-soloa-anche-quando-in-realta-non-lo-sono

https://www.culturedigitali.org/relazioni-e-solitudine-ai-tempi-dei-social-media/

https://www.italiaonline.it/risorse/cos-e-la-fomo-e-perche-puo-essere-una-leva-nella-tua-strategia-di-marketing

https://neomesia.com/nomofobia

Autrice

Mi chiamo Veronica Pepe, sono laureata in Linguaggi dei Media presso l’Università Cattolica di Milano e attualmente frequento il corso magistrale di Web Marketing & Digital Communication presso Iusve di Mestre. L’esperienza finora raccolta attraverso stage e tirocini ha fatto emergere la mia propensione alla dimensione umana e psicologica della comunicazione, che spero di poter applicare e sfruttare in futuro nell’ambito lavorativo.

Related Posts