Le basi del debunking

Il Debunking è una pratica di origini antiche, per trovare una definizione del suo significato oggi dobbiamo pensare alla figura del “debunker” (letteralmente “demistificatore”) che possiamo definire come colui che si occupa di sbugiardare e smentire notizie false, dubbie o antiscientifiche così come le bufale

Per quanto riguarda l’uso e le sue origini, la parola debunker deriva dall’inglese bunk, usata nel linguaggio colloquiale per definire una “fesseria” o “fandonia”. Il prefisso -de all’inizio è apposto con il significato di “rimuovere”. Il dizionario Garzanti definisce debunking come: “la pratica di mettere in dubbio o smentire, basandosi su metodologie scientifiche, affermazioni false, esagerate, antiscientifiche; l’attività di un debunker”. Pertanto, la connotazione moderna del termine nasce per la prima volta grazie al giornalista e scrittore americano William Woodward,  che all’interno del suo bestseller, pubblicato nel 1923 utilizza per la prima volta il termine debunk, come lo intendiamo oggi, che diventa quindi un neologismo. 

Al principio la figura del debunker operava principalmente su campi riguardanti la religione, fenomeni ufologici, dichiarazioni sul paranormale, ricerche svolte secondo metodi non scientifici, teorie del complotto o presunti eventi miracolistici e interveniva appunto per smentire tutti questi fenomeni. Tra tutti questi, in particolare però alle primissime origini il debunking si applicava in campo scientifico perché non era semplice comunicare la scienza e anche perchè spesso collegate ad essa nascevano pseudo teorie

Figura importante è stata quella del matematico statunitense Martin Gardner, uno dei più importanti debunker di teorie pseudoscientifiche e di illusionismo. Gardner offre un’interessante spunto sull’etimologia della parola, che descrive come un termine peggiorativo venga usato quando i difensori della pseudoscienza vogliono screditare i critici. Afferma Gardner: “Il significato odierno della parola bunk sul dizionario viene definito come una sciocchezza dissacrante, come l’esposizione della finzione o della falsità. Chi potrebbe obiettare a questo? Tuttavia può darsi che debunk stia diventando un termine di rimprovero, come la vecchia parola scandalista, ora sostituita dal più dignitoso reporter investigativo“. Il commento di Gardner rivela la sensazione che debunking possa essere un’attività un po’ contaminata. Allontanandosi dal percorso rettilineo e stretto della scienza “seria”, si scivola in vari discorsi che sono marcati per servire gli interessi della scienza. (D.J. Hess, 1993)

In generale, però vediamo che il debunking si applica in moltissimi campi, tra questi la politica, che diventa un’area più che proficua soprattutto nel momento delle elezioni presidenziali, visto che i debunker possono attuare un controllo diretto su tutto ciò che i politici affermano. 

Oggi però è il mondo dell’informazione che fa sempre più ricorso alla figura dei debunker, infatti il suo compito principale è quello di verificare l’attendibilità delle fonti con la conseguenza di metterne in dubbio il contenuto. Si inserisce obbligatoriamente a questo punto il fenomeno delle Fake News, infatti è un fenomeno che al giorno d’oggi si manifesta con una crescita allarmante, ecco che quindi la figura del debunker trova sempre più una sua collocazione nel mondo del giornalismo e della (mis)informazione. La sua attività si concentra nelle varie fasi del processo comunicativo: partendo dalla notizia, egli analizza contesto, contenuto e fonti per poter risalire alle motivazioni che hanno dato origine alla notizia e poterle smascherare, nella migliore delle ipotesi. Si può quindi definire il lavoro del debunker non tanto nella discriminazione di ciò che è vero da ciò che è falso, bensì puntare sulla differenza tra vero e verosimile. 

Debunking e fake news sono due facce della stessa medaglia. Le fake news sono sempre esistite e la storia dell’uomo ne è costellata. Quante volte ti sarà capitato di leggerne una? Queste notizie false (in parte, o del tutto) catturano l’attenzione e i motivi per cui vengono realizzate e diventano virali sono molti. Sfruttano i punti deboli della popolazione che, spesso, presa dal panico e dell’ansia generale è portata a credere a tutto ciò che legge. Generalmente, queste notizie sono frutto di teorie del complotto e il loro fine è generare il caos della disinformazione

Il periodo attuale di pandemia globale è l’habitat naturale ideale delle fake news in cui possono, più o meno liberamente, sedimentarsi nella mente dell’utente e vengono ed essere condivise senza una vera e propria riflessione sulla loro veridicità. 

Uno degli esempi più famosi di Fake news risale al 1938 che, ancora oggi, viene utilizzato come esempio di fenomeno di diffusione della psicologia del panico. Si tratta del caso della trasmissione radio “La guerra dei mondi” di Orson Welles, in cui vennero trasmessi una serie di messaggi mandati da autorità ufficiali statunitensi. Ma in realtà il loro scopo non era quello di diffondere una fake news, perché fin dall’inizio della messa in onda fu dichiarato che si trattava di un riadattamento del romanzo di fantascienza di H. G. Wells, “La guerra dei mondi”. Moltissimi radioascoltatori credettero che si trattasse di una notizia vera, soprattutto coloro che si sintonizzarono quando la trasmissione era già iniziata. Bisogna sottolineare che l’intento della trasmissione era soltanto quello di intrattenere durante la notte di Halloween, di sicuro non si sarebbero aspettati una risonanza mediatica di quelle dimensioni, dovuta soprattutto alla diffusione sui giornali. La stampa, infatti, accusò la trasmissione dichiarando che la radio è il mezzo più potente per creare disinformazione mettendo in luce le controversie che esistevano tra la stampa e la radio. Questo esempio mostra chiaramente come più di tutti, i mezzi di comunicazione siano i più utilizzati per la strumentalizzazione delle notizie non vere e la loro diffusione. 

Negli ultimi anni il concetto di fake news è sempre più utilizzato soprattutto in ambito politico ed elettorale ed è sempre più vittima di interpretazioni sbagliate e distorsioni. Infatti, nell’utilizzo del termine rientrano indifferentemente notizie non verificate, fabbricate ad arte o provenienti da fonti dubbie, così come satire o modelli di mocking journalism come Lercio. Per questo motivo in molti ritengono che per evitare disordine e disorientamento invece di fake news sarebbe più corretto utilizzare termini come “disinformazione” o “misinformazione”.

Tornando al concetto iniziale riguardante la figura del debunker, negli ultimi anni sempre più organizzazioni hanno sentito la necessità di porre fine alla disinformazione motivo per cui nel 2015 è nata la First Draft News, un progetto a cui hanno preso parte circa 30 soggetti tra organizzazioni, editori e agenti che operano nel campo dei media, con l’appoggio di  Google News Lab. L’obiettivo è quello di combattere la disinformazione online creando una piattaforma in cui gli utenti possano verificare la veridicità di una determinata notizia e imparare a riconoscere da soli come identificare quando una notizia è verificata e affidabile. 

Questo progetto delinea sette modi di disinformare che si possono così riassumere: 

  • Collegamento ingannevole: si verifica quando il contenuto differisce dal titolo, o dalle immagini;
  • Contesto ingannevole: consiste in una situazione comunicativa in cui vi è la presenza di informazioni vere poste all’interno di un contesto falso;
  • Contenuto manipolato: è un articolo che risulta essere reale, ma viene manipolato per trarre in inganno;
  • Manipolazione della satira: quando il contenuto satirico viene inconsapevolmente utilizzato per trarre in inganno;
  • Contenuto fuorviante: avviene nel momento in cui l’informazione reale viene utilizzata a scopo ingannevole per inquadrare un problema;
  • Contenuto ingannatore: è un tipo di informazione falsa che viene pubblicata da una fonte attendibile;
  • Contenuto falso al 100%: quando l’informazione è un costrutto concepito artificialmente a fini persuasivi.

Quanto incide la velocità sulla qualità dell’informazione?

Il problema delle fake news non riguarda solo il nostro Paese, ma ha una portata mondiale. Già nel 2018 una ricerca pubblicata su Science da Soroush Vosoughi, Sinan Aral e Deb Roy del Massachusetts Istitute of Technology ha messo in luce come le bufale tocchino in particolar modo social media come Facebook e Twitter, e come in quest’ultimo si propaghino molto più velocemente delle notizie vere.

Infatti, se si considerano le cosiddette information cascade di Twitter, ossia le catene di condivisioni ininterrotte, le notizie false risultano essere dalle dieci alle venti volte più veloci di quelle vere. Inoltre le fake news riescono a diffondersi anche con maggiore profondità all’interno di Twitter: i ricercatori hanno tenuto in considerazione sia la diffusione “orizzontale”, ovvero la condivisione diretta da un influencer, sia quella “verticale”, cioè la condivisione ininterrotta di questi messaggi falsi, le cascades appunto. Secondo entrambi i parametri, quindi, le fake news vincono e riescono ad essere più pervasive e persuasive dell’informazione corretta.

Ma chi è che condivide di più le bufale sui social?

L’analisi ha evidenziato come la diffusione in larga scala delle fake news sia dovuta in particolar modo all’azione degli utenti e non dei bot, i software automatizzati. Sarebbero quindi gli esseri umani a ritwittare le notizie senza prima operare un’opportuna verifica delle informazioni.

I ricercatori del MIT hanno inoltre avanzato due ipotesi con cui tentano di spiegare come una notizia falsa acquisisca maggiore forza di penetrazione attraverso il web, e quali siano i fattori che la portano ad essere più popolare di una corretta.

La prima suppone che le fake news siano costruite in modo da risultare più originali e “nuove” di quelle vere. Secondo lo studio, infatti, le bufale online retwittate per la maggiore hanno in comune la caratteristica di essere molto diverse da tutti i tweet apparsi precedentemente sui singoli account esaminati per la ricerca. 

In secondo luogo, le notizie fake sanno far leva su emozioni forti, molto più dei normali tweet ed inoltre sono in grado di suscitare curiosità, sorpresa, disgusto e spavento. Le notizie vere sono invece più frequentemente associate a stati d’animo come fiducia e tristezza. In aggiunta, le notizie false si ricollegano a temi molto popolari come la politica, il terrorismo, i disastri naturali, la finanza e la scienza. Perciò un taglio di tipo emozionale, un tema gettonato fra l’opinione pubblica, una storia originale e percepita come nuova sono le caratteristiche che deve avere una notizia falsa affinché possa diffondersi e diventare virale nel social network.

Il successo delle fake news rischia quindi di minare la credibilità dei social come luogo di diffusione e ricerca dell’informazione.

Sempre del 2018, è un report dell’AGCOM, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, che ha analizzato la qualità dell’informazione percepita in rapporto ai diversi tipi di organi informativi.

La ricerca ha prima analizzato la qualità percepita dell’informazione, in rapporto alle risorse messe in campo, ovvero alla quantità di giornalisti che sono impiegati nell’informazione.

Dai risultati emerge che le fonti informative riconducibili a internet, come siti di quotidiani, testate online e social network, si trovano sopra la curva di produzione (Figura 1). 

Figura 1 – Funzione di produzione dell’informazione

Fonte: Indagine Agcom News vs. fake nel sistema dell’informazione.

Ciò significa che, a parità di giornalisti impiegati e di altre condizioni, questi attori producono un’offerta di informazione maggiore. Questo fatto determina un sovrautilizzo del fattore produttivo impiegato, i giornalisti per l’appunto, che va a incidere negativamente sulla qualità del prodotto finale. In queste modalità, di fatto, i professionisti si trovano da un lato a dover conciliare il loro lavoro con la velocità di produzione e di aggiornamento dei contenuti informativi richiesti dall’informazione online, mentre dall’altro lato, si trovano a dover fare i conti anche con le logiche di monetizzazione dei contenuti posti sul web, spesso basate sull’attrazione nei confronti del maggior numero di click.

Le tempistiche brevi entro cui i giornalisti devono svolgere il proprio lavoro nell’online possono quindi comportare che il lavoro di raccolta e verifica delle informazioni svolto da parte dei professionisti sia condotto con minore attenzione e accuratezza, con conseguente calo della qualità della produzione informativa.

 

Una situazione ben diversa è invece quella che riguarda un secondo gruppo di mezzi comunicativi: emittenti televisive e radiofoniche si collocano al di sotto della funzione di produzione, al contrario di quanto avviene per le fonti online. I giornalisti del secondo gruppo di mezzi presi in esame presentano una minore intensità produttiva e questo fattore può essere attribuito a due elementi: da una parte l’assegnazione anche a mansioni diverse da quelle previste da routine giornalistiche, data la natura dei mezzi tradizionali; dall’altra, può essere indice di maggiore accuratezza e approfondimento dell’informazione consegnata ai cittadini.

Nello specifico, i quotidiani sono il mezzo che più si avvicina al valore medio dell’intensità di produzione, come mostra chiaramente la Figura 1.3. Questo mezzo, infatti, più tradizionale e dedicato solamente all’informazione, prevede che ai giornalisti siano assegnate le mansioni più tipiche della professione. I professionisti quindi non hanno l’obbligo di rispettare i tempi ristretti che una pubblicazione costante nell’arco della giornata richiede. Scadenze più lunghe e una maggiore quantità di tempo a disposizione comportano, quindi, una maggior attenzione verso l’aspetto qualitativo dell’informazione prodotta e consegnata ai lettori.

Un’ulteriore dimostrazione del fatto che le informazioni fornite dai quotidiani possiedono una maggiore qualità è la relazione che si riscontra tra l’intensità produttiva dei giornalisti impiegati da un mezzo (ovvero il numero di contenuti informativi che ognuno produce in media in un mese) e la reputazione di cui lo stesso mezzo gode presso il grande pubblico. Ciò significa che chi si affida ad un quotidiano per ottenere informazioni lo percepisce come un mezzo altamente affidabile. 

Proprio l’affidabilità è stato un altro punto su cui si è focalizzato il report dell’AGCOM. Il documento illustra come l’affidabilità che gli utenti percepiscono in riferimento ad un determinato mezzo di produzione può essere considerato un indice di soddisfazione derivato dalla fruizione del mezzo stesso. Solo l’esperienza e la fruizione del mezzo soggettive possono infatti determinare il valore dato al mezzo da ciascun utente.

Dalla ricerca emerge dunque che questa qualità percepita nei confronti del contenuto informativo cali qualora aumenti l’intensità produttiva del giornalista, con conseguente abbassamento anche dell’affidabilità ispirata dal mezzo di informazione. 

Ne risulta che il giudizio di qualità più alto sia riservato ai media più tradizionali che riservano tempistiche più lente ai loro giornalisti. I media online, invece, a fronte di una produzione più alta e tempi più ristretti, soffrono di una percezione di affidabilità più bassa (si veda la Figura 2).

Figura 2 – Relazione tra intensità produttiva del giornalista e reputazione del mezzo

Fonte: Indagine Agcom News vs. fake nel sistema dell’informazione.

Riassumendo, il fattore velocità si dimostra determinante in tema di qualità dell’informazione disponibile e, di conseguenza, di potenziale diffusione delle fake news. Laddove vi è una tempistica più lenta, invece, è resa possibile quella che per gli utenti  risulta essere un’informazione più accurata e approfondita. Al contrario, dove le logiche di fruizione comportano tempi di aggiornamento più veloci, i fruitori denunciano una minore percezione di affidabilità e una qualità informativa più bassa. 

Queste considerazioni portano quindi a mettere in luce come i media tradizionali godano ancora di affidabilità e fiducia, mentre i media digitali scontino un calo della qualità percepita nei confronti del loro servizio informativo.

Nel caso dei social, in particolare di Facebook e Twitter, l’elemento velocità è doppiamente nemico della loro reputazione come fonti di notizie. Infatti, la ricerca operata dal MIT ha evidenziato come la capacità di diffusione di una notizia falsa ben congeniata possieda, nel medesimo lasso di tempo, un potenziale di diffusione molto più ampio di quello di una notizia veritiera.

Uno dei casi più emblematici della velocità della diffusione in rete, ad esempio è il caso legato al programma Le Iene e la fake news (parzialmente vera) della Blue Whale

Il programma infatti nel corso degli anni è riuscito a conquistarsi la stima e l’ascolto di un vasto pubblico di telespettatori che credono alle notizie che nel corso del programma vengono proposte. 

Il servizio, andato in onda nel 2017 della durata di circa trenta, minuti parlava e raccontava di questo gioco definito da molti “gioco dell’orrore online” in cui moltissimi giovani dovevano compiere una serie di azioni (il numero delle azioni da compiere era 50), molte delle quali prevedevano delle lesioni corporee alla propria persona.

Il fine era quello di manipolare e portare alla depressione questi adolescenti. 

Alcune di queste regole erano: 

  • Tagliatevi il braccio con un rasoio lungo le vene, ma non tagli troppo profondi. Solo tre tagli, poi inviate la foto al curatore;
  • Tagliatevi il labbro;
  • Procuratevi del dolore, fatevi del male.

Lo step finale del gioco prevedeva il suicidio, gettandosi da un palazzo alto e facendosi riprendere. 

Proprio per questo step finale, che prevedeva un suicidio “consapevole” si è iniziato a parlare di questo gioco in quanto in Russia erano avvenuti moltissimi casi di suicidio giovanile, con tanto di ripresa dell’atto.  

Il servizio, in classico stile Le Iene, con musica drammatica e utilizzo di immagini e parole molto forti ha scatenato il panico e la curiosità generale. 

La notizia in sé, però, non era del tutto falsa. Il gioco Blue Whale, infatti, esisteva e in quel periodo erano avvenuti differenti suicidi con le medesime modalità previste dal gioco.

In Russia vennero inoltre condotte differenti indagini a riguardo e l’inventore della pagina f57, Filipp Budejkin, si dichiarò colpevole per istigazione al suicidio di 15 ragazzi anche se gli investigatori lo accusarono per la morte di “solo” due adolescenti.

Il caso diventò virale tant’è che secondo Google Trends ci fu un picco di ricerche dopo la messa in onda del servizio. Possiamo affermare che questo servizio fosse una fake news, in quanto il programma ingigantì la notizia a livelli tali con il fine di scatenare il panico generale. 

Lo stesso programma, successivamente, ammise di aver parlato e utilizzato immagini di suicidi che non avevano nessuna correlazione con il gioco. 

Attualmente, in merito all’argomento, c’è ancora molta confusione anche dovuta alle notizie pubblicate sull’argomento non propriamente veritiere. Ad oggi non è ancora chiaro chi fosse il vero ideatore del gioco e se effettivamente il gioco fu la vera causa della morte degli adolescenti. Infatti, le pagine legate alla Blue Whale nacquero tutte successivamente alla morte della ragazza che diventò il simbolo del gioco dell’orrore, Rina Palenkova, anche se ancora oggi non sappiamo se il suo suicidio fu indotto dal gioco. 

In ogni caso, il servizio realizzato dal programma nonostante sia stato dichiarato solo parzialmente vero è ancora accessibile all’interno del loro sito web pronto a creare agitazione e malessere a chi deciderà di visionarlo. 

 

Gli strumenti analogici e processuali del debunker

Quando andiamo a valutare se l’azione di debunking è stata svolta nella maniera corretta non possiamo non valutare i metodi utilizzati dai debunker.

Lo strumento può essere di tipo software, quindi più automatizzato, oppure di tipo intuitivo e di ricerca, che si basa invece sul lavoro di una o più risorse umane che attivamente vanno a ricercare e analizzare fonti, autori e testi. 

Per poter capire gli strumenti possiamo partire da quelli più semplici e intuitivi, ovvero quelli che ogni utente può utilizzare. 

È necessario fare una premessa: i “sintomi” di una fake news, per quanto siano spesso molto indicativi, non sono elementi probanti, ovvero non costituiscono delle prove che l’azione di fact checking sia avvenuta in maniera completa, esaustiva ed efficace. Persino gli stessi strumenti di comunicazione hanno introdotto dei consigli su come discernere le informazioni vere da quelle false, o comunque degli strumenti utili per farsi venire il dubbio, ma non bastano per determinare effettivamente se una notizia o un messaggio ricevuto su WhatsApp abbiamo un fondo di verità, o se siano delle vere e proprie bufale. Proprio WhatsApp, nella sezione FAQ, disponibile sul sito web, ci mette in allarme rispetto a una fake news. Come primo strumento a nostra disposizione abbiamo un elemento dell’interfaccia grafica di questa applicazione: le doppie frecce. Quando riceviamo un messaggio inoltrato da qualcuno, di solito, ha una freccia singola nella parte in alto a sinistra, la quale ci suggerisce che questo sia stato inviato dapprima ad un’altra persona per poi essere inviato a noi. Ecco, se questo presenta non una ma ben due frecce, questo significa che il messaggio in questione è stato inviato a più di cinque persone. Sempre WhatsApp, nella sua guida, ci informa che ci sono altri accorgimenti che potrebbero ricondurre alla falsa natura del messaggio che abbiamo ricevuto, a cominciare dalla grammatica errata e dall’eccessivo uso di punti esclamativi, punti di domanda, parole e frasi dal forte impatto emotivo (“immigrati, ecco cosa ci nascondono” ecc). Sono sicuramente da tenere d’occhio tutti quei titoli o parole in grassetto che sembrano clickbait (i cosiddetti “catchy titles”), ovvero che ci invogliano ad aprire, cliccare, ecc. Questo aspetto lo andremo ad approfondire tra poco.

Nel 2018 il noto Paolo Attivissimo, conosciuto sul web come Il Disinformatico, https://attivissimo.blogspot.com/ ha tenuto un seminario in cui ha rivelato alcuni dettagli del mondo delle fake news e di come il processo di debunking presenti alcuni fattori che vengono da subito presi in considerazione, così come alcune fonti che già di per sé si occupano di portare informazione e di svolgere attività contro la disinformazione e la malainformazione, tra cui alcuni giornali francesi come LeMonde e Liberation che fanno esattamente questo. Inoltre su Twitter ci sono attività di debunking che vengono svolte giornalmente, per cui, se vengono seguite si può avere una “diretta” sullo stato della verifica delle informazioni che circolano.

Sempre secondo Attivissimo, ci sono alcuni indicatori di bufala all’interno di una notizia.

Ad esempio l’utilizzo dei termini:

  • ”quantistico” …
  • ”naturale”
  • ”Nicola Tesla”
  • ”scienza ufficiale”
  • ”rifiuto della trasparenza”
  • ”scienziato esotico”

Strumenti di indagine di base:

  • uso di Google con frase tra virgolette + bufala/fake/hoax
  • ricerca avanzata
  • news.google.com cerca solo su testate giornalistiche
  • scholar.google.com, researchgate.net, academia.edu
  • books.gogle.com archivio libri
  • ricerca per immagini (anche Tineye.com, Karmadecay.com)
  • archive.org 

 

Come bisognerebbe reagire?

  • censura: non funziona;
  • chiediamo ai giornalisti di fare migliore informazione;
  • coinvolgere i media di massa;
  • installare adblocker che blocca pubblicità, non diamo soldi e lo sblocchiamo sui siti

che vogliamo supportare davvero (quelli considerati “buoni”);

  • non condividere se non certi;
  • usare internet come antidoto;
  • educare al senso civica a partire dalle scuole;
  • rendere l’approccio investigativo-scientifico;
  • comunicare correttamente.

 

David Puente, noto debunker del giornale online Open di Enrico Mentana, ha spiegato in maniera semplice e per certi versi ironica quale sia il suo processo di debunking all’interno di una puntata di EPCC (E Poi C’è Cattelan) su Sky, intitolata “Come scovare una Fake News con David Puente”.

Cattelan, il conduttore della trasmissione, menziona un aspetto molto importante, ovvero come effettivamente l’utilizzo di dati possa trarre in inganno. Il vero problema è che per rendere più credibili i dati, questi vengono affiancati da dichiarazioni di presunti esperti o addirittura viene attribuita ai veri esperti la paternità di dati che dati non sono.

Uno strumento utile in questo senso è proprio la verifica del profilo del presunto autore dei dati. Qualunque ente scientifico o esperto in un certo campo si avvarrà di comunicare dati e ricerche sui propri canali ufficiali, che siano canali social, sito web, libro, pubblicazione, editoriale, saggio e così via. Lo step fondamentale in questo senso è andare sui profili social o sui canali ufficiali e procedere con la ricerca dei dati citati, che siano comunicati in forma testuale o che siano in forma orale, quindi all’interno di video, di servizi televisivi (anche su Youtube!) e così via.

Nella trasmissione, Puente descrive diversi casi e i relativi segnali di presenza di fake news.

Spesso le informazioni che arrivano sono relative a malattie che circolano, vedesi il coronavirus attualmente, e nel caso citato abbiamo anche una storia di TBC. Come afferma Puente, spesso queste “notizie” arrivano direttamente al mittente dall’amico saputello. Infatti, l’amico saputello è quello che sa tutto e farcisce tutto con dati che ti possono trarre in inganno. Quello che fanno le persone è, ovviamente, non andare a verificare ma piuttosto inoltrare lo stesso messaggio a qualcun altro con l’obiettivo magari di suscitare una reazione di attenzione nei propri confronti… tanto ce l’ha mandato qualcun altro! Nel marasma di questi messaggi che sono ovunque, quello che poi Puente e il suo team devono fare è verificare una marea di informazioni. Il messaggio che cita come esempio diceva, appunto, che gli stranieri erano già vaccinati e per cui non potevano essere contagiati dal Covid-19. 

Dal momento che una notizia falsa scritta in pochi istanti potrebbe anche essere in parte reale, il debunker deve analizzare minuziosamente ogni singola parte del testo e per questa ragione tale processo può durare anche uno o due giorni. Bisogna ricordare, inoltre, che in aggiunta al tempo dell’analisi va considerato anche il tempo per contattare gli esperti della specifica area oggetto della fake news.  

 

Gli strumenti a cui ti consigliamo di dare un’occhiata sono tra i siti web Bufale.net che è uno dei più famosi siti di verifica di informazioni e immagini circolanti sul web. Per i software invece ci sono strumenti come Google Reverse Image Search, TinEye, RevEye o Yandex, che permettono di caricare un’immagine o via file o via URL e scovarla in tutti i siti che l’hanno pubblicata. BS Detector e FullFact Automated sono il passato e il presente del debunking basato sul crowd fact-checking.

 

In un articolo su CNET relativo alla relazione tra dichiarazioni ufficiali, fake news e i deep fake, viene illustrato il processo di debunking, e quindi di smascheramento, dei video con presidenti americani e altre autorità che effettuano presunte dichiarazioni ufficiali alla popolazione ma che in realtà sono state create appositamente con processi di elaborazione e manipolazione visiva. Per poter capire questo concetto dobbiamo prima di tutto comprendere cosa siano i deep fake. Questi vengono definiti come quella tipologia di video ritraenti figure autorevoli, o di potere, mentre rilasciano dichiarazioni non veritiere ma credibili, grazie all’intervento di un algoritmo di intelligenza artificiale che modifica il labiale in maniera coordinata con quanto viene detto. Il dizionario online Treccani descrive il concetto di deep fake come un “filmato che presenta immagini corporee e facciali catturate in Internet, rielaborate e adattate a un contesto diverso da quello originario tramite un sofisticato algoritmo”.

Nell’articolo del celebre magazine CNET viene mostrato un software che riesce a scovare le modificazioni facciali innaturali o non appartenenti ai soggetti presenti in video. In particolare si evidenziano le limitazioni che, attualmente, sono presenti nel mondo degli algoritmi di intelligenze artificiale che stanno alla base dei deep fake: per quanto i movimenti labiali siano piuttosto accurati e credibili, “matchando” in maniera adeguata quanto viene detto nell’audio corrispondente, i movimenti mandibolari e della parte superiore del volto, in particolare della zona degli occhi, non sembrano risultare altrettanto precisi.

Il software utilizzato dai ricercatori delle università e dagli organi governativi americani che viene utilizzato da CNET per la loro indagine, mostra la mancanza di corrispondenze tra i movimenti oculari e delle sopracciglia di Barack Obama con quelli presenti nel video. Questo è di gran conforto sia per gli organi istituzionali sia per noi, in quanto possiamo effettivamente verificare le dichiarazioni che sospettiamo essere state falsate in qualche maniera.

 

Il debunking preventivo o pre-debunk.

Quali sono effettivamente gli strumenti più efficaci a disposizione per poter verificare ciò che circola in rete? “Prevenire è meglio che curare” direbbe qualcuno. Non c’è niente di più vero: in generale la prevenzione funziona meglio del rimediare in seguito. Alcune ricerche mostrano come le falsità si diffondano molto più in fretta e in profondità rispetto alla verità e quindi combattere la disinformazione solo dopo che una notizia è stata diffusa potrebbe rivelarsi una battaglia persa già in partenza.

In questo senso, alcuni sociologi dell’Università di Cambridge hanno capito come applicare questo principio alla pratica di sbugiardare le notizie false. Questi ricercatori hanno creato nel 2018 la piattaforma Bad News, un gioco virtuale che fa immedesimare l’utente nel ruolo di produttore di notizie false e creatore di troll. Lo scopo è quello di far conoscere al giocatore come agisce chi solitamente scrive falsità e quali sono le pratiche e tattiche più comuni per fomentare le convinzioni antiscientifiche sul web. Il metodo è risultato efficace, talmente tanto da essere definito dall’università stessa come un “vaccino digitale”.

“Study of thousands of players shows a simple online game works like a ‘vaccine’, increasing skepticism of fake news by giving people a “weak dose” of the methods behind disinformation.” – University of Cambridge (June 25, 2019)

 

Il metodo infatti si basa sullo sfruttare la teoria dell’inoculazione, che agisce a livello psicologico e consiste nell’esporre la persona a materiali che minacciano i suoi atteggiamenti o convinzioni facendo sviluppare così una resistenza a tali minacce, esattamente come avviene con gli anticorpi che si rafforzano quando un soggetto viene esposto ad un vaccino e quindi sottoposto ad una versione più lieve della malattia.  

Nello specifico, durante il gioco all’utente vengono poste delle domande a cui può rispondere scegliendo tra due opzioni. Alla fine del set di domande viene rivelata la strategia usata comunemente dal “bufalaro” e all’utente viene assegnato un badge che contraddistingue la tattica. In totale ce ne sono sei, e vengono rivelati nel seguente ordine: 

  1. Impersonation: “Impersonating someone else and disguising yourself as a credible news source can be highly effective”.

Per scrivere fake news la prima tattica più facilmente utilizzata è quella di rubare l’account a qualcuno o crearne uno usando un nome davvero molto simile, esattamente come avviene nella truffa informatica comunemente nota col nome di phishing per far sembrare l’indirizzo da cui ti arriva l’email accreditato e vero.

In questo caso, nel creare un nuovo blog o sito l’autore delle bufale solitamente non usa parlare di opinioni, ma usa la parola “verità”, come se fosse un concetto assoluto.

  1. Emotion: “Playing to people’s emotions like fear, anger or compassion is a great tool for spreading your message”.

La seconda tattica si concentra sul fomentare la massa scrivendo qualcosa che tocchi il pubblico emozionalmente. Le emozioni più sfruttate in questo senso sono quelle più basiche come la paura, la rabbia e la compassione. Inoltre, nel gioco si sottolinea come creare uno storytelling emozionale tramite un meme o un articolo sia spesso la chiave per accedere alla viralità e guadagnare in visibilità.

L’altro approccio comune dello storytelling emozionale è inoltre quello di andare contro alle opinioni degli scienziati che sono spesso noiose e troppo complicate da capire per l’audience.

  1. Polarization: “By finding existing grievances and blowing them up, you can drive people apart and make them think a story is much more important than it really is”.

La terza tattica consiste nel non scrivere immediatamente una fake news, altrimenti il rischio sarebbe quello di venire beccati ed essere additati come bugiardi. Piuttosto risulta più efficace trovare un potenziale scandalo già esistente sui social media con relative lamentele e malcontenti annessi facendoli esplodere con l’utilizzo dei bot, per far allontanare le persone polarizzando le opposizioni e far pensare loro che la storia sia molto più importante di quanto non sia in realtà.

  1. Conspiracy: “A well-crafted lie published at the right time makes people lose trust in institutions. You can use people’s desire for the ‘truth’ to lure them into your band of followers”.

La quarta tattica si concentra sul creare una buona cospirazione, che inizia con qualcosa di realistico: attaccando un’organizzazione grande e senza volto si possono manipolare i materiali di partenza e creare una storia credibile.

  1. Discredit: “You’ve defended yourself against attacks from outside by going on a ruthless counteroffensive. Is someone attacking your credibility? Strike back. Don’t apologize, don’t play nice, and above all: don’t retreat!”.

La quinta tattica consiste nel screditare le fonti, soprattutto attaccando una fonte legittima con accuse di pregiudizio o distorsione.

  1. Trolling: “You’ve used a variety of disinformation techniques, and deliberately caused societal distrust and chaos. Trolling is trying to evoke an emotional response such as anger, irritation or sadness”.

La sesta e ultima tattica consiste nell’usare i troll, interagendo con gli avversari tramite messaggi provocatori, irritanti, fuori tema, o semplicemente senza senso, con il solo obiettivo di disturbare la comunicazione e fomentare gli animi.

Questo studio si è rivelato uno strumento di debunking utilissimo, la cui efficacia è stata misurata anche in termini numerici: ne è risultato che tra i 15.000 partecipanti l’affidabilità percepita delle fake news si è ridotta del 21% dopo il completamento del gioco. 

In conclusione, permettere agli utenti di capire come agiscono coloro i quali producono serialmente disinformazione ha funzionato molto meglio di disinnescare singole fake news. Agire sulla singola notizia comunque è ancora la pratica più diffusa fra i debunker. 

 

Perchè il Debunking non funziona: gli aspetti critici 

Analizzando il Debunking utilizzando il medesimo metodo, quello scientifico sperimentale, la sua stessa struttura risulta poco solida: a causa del fenomeno dell’omofilia, esso non può essere considerato una soluzione alla diffusione delle fake news, poiché viene accettato solo da chi già condivide la posizione presa dal debunker di turno. 

A confermarlo, lo studio pubblicato da una squadra internazionale, a capo della quale si possono ritrovare ricercatori italiani, su Plos One (testata giornalistica scientifica della Public Library of Science dal 2006, editata tramite la metodologia Open Access), intitolato “Debunking in a World Of Tribes”, all’interno del quale si è raccolto lo studio attuato analizzando l’attività su Facebook di circa 54 milioni di fruitori, per la durata di cinque anni. 

Sono stati analizzati i post, le interazioni e i commenti resi pubblici su 83 pagine americane di carattere scientifico, 330 pagine di complotto e 66 con titolo di “debunking pages” del social network, per un totale di più di 50.000 contenuti. Si intuisce immediatamente la polarizzazione del contesto in cui si cerca di fare spazio l’attività di debunking, molto più indirizzata alle sfere di fonti non scientifiche ed oltremodo negazionista nei confronti delle fonti autorevoli, al momento del contatto, che avviene di rado. 

La Dott.ssa Fabiana Zollo, autrice primaria dell’articolo e ricercatrice post-dottorato all’Università Ca’ Foscari di Venezia, individua e spiega due problemi principali al rapporto tra debunker e debunked. 

Il primo è il tono solitamente duro ed altisonante della comunità scientifica nel rapportarsi con la sfera opposta: l’approccio accademico rimanda chi ascolta ad una condizione umiliante, di chi viene sgridato, cosa che si traduce in un rigetto delle informazioni ricevute nonostante la solida e comprovata posizione. La democraticità del web rende più difficile ed articolato il sistema di strutturazione delle notizie. 

Il secondo problema è la capacità di anticipare l’esplosione della bolla del fenomeno “bufala”, andando a risolvere alla sorgente l’emorragia di fake news e fraintendimenti.

Su questo particolare argomento, si è espresso Sander van der Linden, Direttore del Cambridge Social Decision-Making Lab, trattando l’argomento del debunking preventivo, o pre-bunk, che a differenza del pensiero comune non attua una correzione delle credenze, come citato nel paragrafo precedente.

Come già accennato, l’istituto ha attuato un esperimento che ha permesso il riscontro finale di un aumento della sensibilità al riconoscimento delle fake news, pari al 21%, arrivando quindi alla decisione di portarlo anche nelle scuole, ai bambini tra gli 8 e i 10 anni.

In Italia, personaggi come Paolo Attivissimo, David Puente e Michelangelo Coltelli, rispettivamente gestori di portali come Disinformatico, Bufale.net e Butac.it difendono l’attività del debunking, perfino di fronte alla chiusura della rubrica “collega” del Washington Post, portando a sostegno della loro tesi l’errore da parte dell’IMT nel proporre la ricerca come sottoposta a gruppi di complottisti e negazionisti, i quali certamente non sono i più propensi ad accettare critiche verso le loro convinzioni. 

Il debunker si occupa anche di svelare truffe ai danni di chi cerca disperatamente una soluzione ai propri problemi, rischiando inganni e disinformazione, come ad esempio l’intervento di Coltelli nel caso contro la miracolosa terapia contro il cancro di Tullio Simoncini, ex medico atto dall’albo nel 2006. 

Assolutamente appropriato è il memento portato dai tre debunker, i quali fanno notare quanto il problema dell’ analfabetismo funzionale in Italia sia da affrontare e risolvere, o almeno ammortizzare, ora più che mai, visto che quasi un italiano su 2 non è in grado di capire un contratto, o un editoriale. 

Ma non solo gli studiosi contemporanei di questo argomento possono vantare un’opinione riguardo. Tra le Grand Theories postmoderne e le teorie della globalizzazione, possiamo individuare alcune ricerche degne di nota, che possono darci una base su cui delineare una struttura di risposta a questi dubbi. 

All’interno del testo “Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione” del 1996, ad opera di Arjun Appadurai, antropologo statunitense di origine indiana, vengono individuati un complesso di ciò che lui definisce come panorami, sottolineandone le forme fluide, variabili ed irregolari, adeguate alla non-omogeneizzazione ed alla conseguente eterogeneità dei contesti contemporanei.

I mediascapes, altrimenti detti paesaggi mediatici, raccolgono sia la possibilità di produzione e diffusione a livello mondiale di informazioni, sia i contenuti trasmessi stessi, il che ci permette di individuare una dimensione a sé stante rispetto a quella fisica. Le norme e i fenomeni sociali tendono ad imitare quelli presenti nella realtà materiale, ma acquisiscono caratteristiche differenti portate dalla non compresenza e dalla minor possibilità di ripercussioni in caso di errori e mistificazioni.

Gli ideoscapes, anche detti paesaggi ideologici, sono formati come i precedenti da una notevole mole di contenuti multimediali, ma incorniciati e quindi limitati da ideologie politiche, religiose o culturali, ai quali spesso i contenuti stessi si contrappongono, nel tentativo di acquisire potere ed influenza. (G.Ritzer, 2012)

Da questi possiamo dedurre come all’interno del web si sia sviluppato un mondo digitale che imita le interazioni socio-culturali di quello reale, ma che possiede elaborazioni globali che sono in buona parte, se non quasi completamente, indipendenti da ogni stato specifico, rendendone i flussi di informazione abili a muoversi liberamente, ma non intatti. 

I territori digitali, influenzati da panorami e flussi, sono interessati da un aumento delle differenze tra le culture ad essi caratterizzanti, e conseguentemente dei punti di vista di ogni gruppo e comunità presenti.

Il debunking di contenuti fake nei social media

Come abbiamo visto, dunque, è innegabile considerare l’esistenza di una relazione fra le innumerevoli potenzialità offerte dai social media e la diffusione di fake news nella società. Per tale ragione, infatti, non è raro incontrare attori del dibattito pubblico che ascrivono alle società dei social media anche la responsabilità dei dannosi effetti delle bufale online. L’accusa, che spesso viene mossa verso alcuni colossi delle big tech company, è quella di ottenere un indiretto guadagno economico dalla pubblicazione e circolazione di contenuti fake, senza impegnarsi concretamente allo scopo di limitare la diffusione di questo materiale. Per prevenire questo problema, o quantomeno per cercare di ridurre al minimo il suo impatto sulla società, negli ultimi anni abbiamo assistito alla messa in atto di diverse strategie da parte dei social media per fronteggiare in modo tangibile questa situazione. 

Facebook, ad esempio, ha deciso da tempo di avviarsi verso una nuova strategia di contrasto alle fake news: a seguito di una segnalazione da parte di un utente di un contenuto ritenuto falso, avviene un controllo dell’attendibilità dello stesso. La fase di controllo viene effettuata attraverso un double check da parte di diverse agenzie di fact-checking. Qualora, a seguito del doppio controllo, la notizia risultasse essere a tutti gli effetti falsa, questa viene segnalata dalla piattaforma stessa come una notizia non attendibile. 

Una delle più evidenti criticità di questa pratica è la sua lentezza, considerando soprattutto che essa si scontra con uno dei pilastri della rete web: la velocità. Uno strumento di questo tipo, infatti, permette l’individuazione di un contenuto falso, ma non è in grado di impedirne la visione agli utenti nel lasso di tempo che intercorre tra il momento in cui il contenuto viene pubblicato e quello in cui viene segnalato. A dimostrazione di questa considerazione, è interessante riportare il caso della prima notizia segnalata come poco attendibile da Facebook,  secondo cui alcune fughe di informazioni del presidente americano Donald Trump hanno avuto origine dall’ipotesi che egli avrebbe usato uno smartphone Android per nulla sicuro dal punto di vista informatico. 

Secondo un articolo de La Stampa, infatti, nel tempo trascorso dall’esatto momento di pubblicazione dell’informazione, a quello della segnalazione dello stesso, ovvero circa cinque giorni, il contenuto si era diffuso nella piattaforma ad una velocità impressionante e aveva già raggiunto ormai oltre 80 mila condivisioni.

A questo punto, considerando questi dati,  viene spontaneo domandarsi se questa soluzione sia davvero efficace. Certo, non possiamo negare che la possibilità di avere un riscontro sulla veridicità dell’informazione direttamente nella piattaforma sia una soluzione interessante, soprattutto per gli utenti poco avvezzi al digitale, ma il lento processo di stigmatizzazione di un contenuto ritenuto falso, in un contesto sempre più veloce come il web, fa emergere criticità decisamente non trascurabili. 

Strategie di debunking durante l’emergenza Covid-19

L’emergenza sanitaria Covid-19 ha segnato una proliferazione inaudita di fake news come mai prima d’ora. Per intervenire e cercare di combattere la diffusione di fake news, Facebook ha deciso di fare un grande cambiamento di rotta rispetto alle politiche anti-censura che da sempre hanno orientato la visione della piattaforma: rimuovere definitivamente alcuni contenuti. La logica di funzionamento è questa: nel momento in cui un’autorità sanitaria competente segnala la presenza di contenuti falsi e pericolosi per la salute dei cittadini, la piattaforma interviene, rimuovendoli definitivamente. In aggiunta a ciò, per cercare di ridurre ulteriormente i danni e stimolare un comportamento maggiormente consapevole, la società di Mark Zuckerberg ha preso la decisione di far comparire un avviso con un link al sito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a tutti gli utenti che hanno interagito con una fake news. In questa specifica sezione sarà possibile trovare diversi articoli in cui vengono smentite in maniera definitiva le fake news che ruotano attorno al virus. 

Come dicevamo poco sopra, che sia a causa della noia da lockdown, del clima di tensione dovuto al virus o più in generale dell’aumento del consumo digitale, la diffusione delle fake news durante il Covid-19 è stata davvero eccezionale. Di bufale ne abbiamo viste di tutti i colori, ma una delle più significative, è quella che individua una ipotetica correlazione tra la diffusione del virus e l’utilizzo del 5G.

Iniziamo però spiegando… che cos’è il 5G?

Il 5G è definita una rete di quinta generazione per i sistemi radiomobili cellulari.
Quindi permette ai nostri dispositivi di avere una connessione di rete più veloce e performante rispetto a quella attuale del 4G.
La correlazione tra 5G ed eventuali problemi per la nostra salute però sono emersi già prima della pandemia dovuta al Covid-19.

Infatti erano stati già condotti degli studi per comprendere effettivamente se le onde radio della nuova rete potessero portare a una diminuzione delle difese immunitarie. Altre teorie riportavano una correlazione tra l’utilizzo della rete e l’eventualità di ammalarsi di cancro.

Le ricerche hanno fin da subito evidenziato come le onde radio avessero una bassa frequenza e di conseguenza non potessero recare in nessun modo danni alla salute dell’uomo. 

Nonostante la smentita da parte del mondo della scienza, per alcuni la correlazione tra diffusione della rete e la pandemia globale è stata immediata.

 

In merito a questa fake news sono state realizzate differenti teorie. Una delle più diffuse vedeva come la rete 5G potesse indebolire il sistema immunitario, rendendo quindi l’utilizzatore più esposto al contagio del COVID-19. Altre invece facevano emergere come l’utilizzo di reti 5G invece potesse aumentare e facilitare la diffusione di batteri.

Questa notizia nata da correlazioni casuali ha portato la popolazione nel panico proprio in un periodo in cui vi è stato un tasso di connettività più alto rispetto ai periodi pre-pandemia in cui gli individui si trovano ad essere sempre più connessi per via dello smart working, o delle video lezioni da casa, come per studenti e professori. 

 

La scienza afferma che queste notizie siano delle fake news, ma ciò nonostante la notizia è stata condivisa e ri-condivisa. Questa Informazione inoltre è stata condivisa molteplici volte anche da personaggi pubblici che spesso per la loro posizione e la loro risonanza mediatica vengono presi dal pubblico come punti di riferimento e fonti autorevoli. 

Tra i più conosciuti abbiamo Gunter Pauli, iniziatore dell’economia blu e consigliere dell’economia di Giuseppe Conte.  

 

Infatti in uno dei suoi Tweet pubblicato il 22 marzo 2020 il signor Pauli sostiene che ci sia una correlazione tra le città in cui è stata applicata la rete 5G e le città/zone del mondo in cui si è sviluppato maggiormente il Covid -19.

Nel tweet riporta: ”Science needs to demonstrate & explain cause & effect. However science first observes correlations: phenomena that are apparently associated. Let’s apply science logic. Which was the 1st city in the world blanketed in 5G? Wuhan! Which is the 1st European 5G Region? Northern Italy”. 

Inutile dire che il popolo del web si sia scagliato contro di lui per dimostrare la non veridicità del suo tweet, in quanto non aveva nessuna base scientifica che avvalorasse la sua tesi e inoltre i due fenomeni non avevano alcuna correlazione diretta.   

 

Le diffusioni di queste teorie, oltre a generare il panico nella popolazione, portano alla modificazione reale e oggettiva di alcuni nostri comportamenti. Ne è un esempio la Gran Bretagna in cui alcuni abitanti della città di Birmingham hanno bruciato le antenne del 5G.

C’è una forte correlazione tra la fake news e chi la condivide. Infatti, più una fonte viene considerata attendibile, autorevole e affidabile più il pubblico tenderà a crederci senza cercare informazioni attraverso altri canali. 

 

La nascita del Comitato di Controllo su Facebook

Insomma, avrai capito ormai che la strada verso la rimozione definitiva dei contenuti considerati falsi è decisamente uno dei temi più caldi dell’attualità e sembra che lo sarà in maniera sempre maggiore anche nel futuro. Uno dei fatti più emblematici e, in qualche modo, più rappresentativo dei cambiamenti epocali che stanno avvenendo nel mondo dell’informazione e della comunicazione è sicuramente la nascita del Comitato di Controllo di Facebook e Instagram: un organismo internazionale indipendente che avrà il compito di giudicare la correttezza delle cancellazioni di contenuti e profili. Il Comitato, che entrerà in azione verso la fine del 2020, e sarà composto da quaranta membri provenienti da diverse zone del mondo e potrà contare sulla presenza di premi Nobel, di direttori responsabili di giornali, ex giudici federali e altre figure di diverse discipline. L’idea, come spiega Nick Clegg, attuale Vicepresidente di Facebook, parte dalla presa di coscienza del fatto che la dimensione globale della piattaforma implica anche grandi responsabilità e che questa sarà una svolta fondamentale del social network. A questo punto non rimane che lanciare questa riflessione: non possiamo sapere se questa scelta sia davvero guidata dalla nobile virtù della difesa della verità, o se in caso contrario, questa sia solo una strategia per cercare di ripulire una reputazione che, come sappiamo, è stata macchiata da numerosi scandali nel corso del tempo.  Quello che è evidente, però, è che mai nessuno si sarebbe aspettato che in un tempo relativamente breve, come quello che è trascorso dalla nascita di Facebook, saremmo arrivati ad una situazione di questo tipo. Lo scenario è decisamente aperto e considerando che oggi più che mai le scelte delle piattaforme di social media permeano profondamente le strutture socio-economiche del nostro mondo, sarà interessante osservare quale sarà il contesto al quale saremo sottoposti nel futuro. 

Un futuro, questo, che come avrai capito, non è poi così distante dal nostro presente.  

Debunking e tema etico

Finora abbiamo considerato quasi esclusivamente gli aspetti positivi del debunking, dobbiamo adesso prendere in considerazione il lato opposto di questa medaglia. Il debunking, infatti, se da un lato si prefigge il nobile scopo di scovare informazioni false e di provarne la loro inesattezza, dall’altro può anche essere anche utilizzato per occultare la diffusione di informazioni vere. In questo caso, le azioni che vengono intraprese sono molteplici. Vediamo alcuni esempi:

 

1 – Strumentalizzare il debunking per trarne un vantaggio economico e/o politico: 

in questo caso, abbiamo un effetto di propaganda sulla base dello “smontamento” di una notizia falsa, non col fine di portare la verità alla luce, ma piuttosto di raccontare una verità totale, o parziale, che in quel momento e per il soggetto che sta verificando la notizia è conveniente. Spesso, questa pratica viene svolta con l’obiettivo di spingere una particolare opinione o posizione politica sulla massa di persone per ribadire l’autorità di alcuni soggetti. 

 

2 – Debunking di notizia vera per aggiungere o togliere elementi e dettagli:

sempre partendo dagli interessi di qualcuno tra gli stakeholder coinvolti, si cerca di manipolare i dettagli di una notizia, o di “completarla” artificialmente. È il caso dei dati, ad esempio, sul Coronavirus, sull’immigrazione e l’occupazione. Spesso vengono citati dei dati all’interno delle notizie, ma allo stesso tempo c’è chi le rende opinabili in quanto non si sono aggiunti altri dati o informazioni rispetto alla tematica; in qualche caso, viene attaccato il processo di selezione dei dati da prendere in considerazione (es.: “il PIL è salito del 2% secondo l’ISTAT ma nessuno dice che l’occupazione è scesa”). 

 

3 – Debunking del processo con cui la notizia è stata ottenuta (ma la notizia è vera!):

in questo caso si instilla nel lettore-utente la percezione che la notizia in questione sia falsa quando in realtà semplicemente il processo con cui la notizia è stata reperita presenta problemi di tipo etico o di valore della fonte, ovvero la mancanza di autorevolezza o precedenti casistiche di screditamento della stessa per motivi diversi (incompletezza, inaccuratezza, ecc).

 

4 – Debunking di una notizia parzialmente vera o non completa:

una casistica simile a quella precedente è quella in cui la notizia è vera ma con delle inesattezze. Spesso questa casistica si presenta quando c’è una piccola falla che poi viene strumentalizzata per rendere la notizia falsa o per indurre il lettore-utente alla confusione.

Per spiegare questo concetto utilizziamo un esempio pratico. La notizia è “Mario va al supermercato e acquista X”. Se con un processo o uno strumento di debunking si scopre che Mario non ha comprato X bensì Y, “Mario acquista X” è tecnicamente fake news. La percezione però potrebbe essere sbagliata in quanto quello che il lettore-utente comprende è che Mario non è uscito di casa quando in realtà è andato ad acquistare Y invece che X.

A questo punto sorge la domanda: se una notizia è incompleta e risulta essere per certi versi una fake news, dovrebbe essere trattata come tale? Oppure dovrebbe essere trattata come notizia incompleta e quindi “flaggata” come tale?

 

Critiche

Negli ambienti affini a tematiche controverse come ufologia, terrapiattismo e scienze alternative, la critica maggiore che viene rivolta al debunking è che ogni azione di smontamento delle notizie sia per la maggior parte rivolto a tutto ciò che è alternativo o indipendente, a prescindere dalla verità o falsità delle informazioni. Questa critica viene sollevata anche rispetto alle tematiche dell’ambiente e a quelle dell’immigrazione. 

Un’altra critica che viene spesso evidenziata è il fatto che il debunking sia diventato una vera e propria industria. Come si determina se un qualcosa diventa un’industria? Se c’è una domanda e un’offerta, ovvero se c’è qualcuno disposto a pagare per ottenere lo svolgimento dell’azione di debunking. Ogni testata giornalistica ha un suo team che è specializzato oppure svolge questo tipo di attività come parte integrante delle sue operazioni. È tuttavia  evidente come questo abbia dei limiti, come nel famoso caso di Alessandro Proto e le fake news della sua amicizia e collaborazione con Donald Trump, pubblicate tra il 2011 e il 2016. 

Il vero dubbio etico nasce con i colossi digitali che detengono il monopolio dell’informazione, come Facebook, Google e tutti i social network. In particolare le due piattaforme citate stanno effettuando il roll-out della funzione della spunta per la verifica del fact check. Allo stesso tempo esse stanno riducendo la reach dei post e articoli che sono ritenuti falsi o “non appropriati”. Facebook ha i suoi debunker, nonché degli algoritmi appositi per aiutare le persone a determinare se un’informazione è valida. Da notare i messaggi in-app che ci ricordano di guardare il sito del Governo per ottenere informazioni sul Covid-19. 

A fronte di questo in molti dubitano della correttezza di questa pratica. Questo tema del potere e del controllo dell’informazione è già stato sollevato da Andrea Miconi nel suo libro “Teorie e pratiche del web” e, come viene evidenziato più volte all’interno del testo, il vero motivo per cui questa sia la situazione ad oggi presente è la concentrazione dell’attenzione su poche piattaforme centralizzate che determinano vita e morte delle informazioni, rispetto all’internet delle origini, il quale presentava un’equa distribuzione del traffico e quindi del potere.

Il problema è che spesso la verità non esiste perché siamo noi a scegliere la verità che più ci fa comodo, quella a cui vogliamo credere. Altre volte la verità è quella che ci viene proposta seguendo il principio dell’omofilia, ovvero le persone o le piattaforme che seguiamo ci forniscono delle informazioni vicine alle nostre credenze, a prescindere dalla loro veridicità e completezza. Non andiamo a cercare pareri discordanti e se sono questi a trovare noi, ci impegniamo a far sapere che non siamo d’accordo e che, anzi, gli altri hanno torto. Siamo noi ad aver ragione, ad aver la verità.

L’unica certezza è che ognuno crederà a ciò che vuole sempre e comunque. Finché non ci sarà un sistema di verifica di prove in maniera distribuita la manipolazione agirà sempre verso i sistemi centralizzati.

Non dimentichiamo: la verità non esiste e la realtà è una percezione.

 

Conclusione:

Abbiamo visto come il debunking sia una pratica sempre esistita che aiuta a demistificare notizie fittizie in un complesso ecosistema digitale come quello odierno. Possiamo affermare con certezza, quindi, che sia uno degli argomenti più attuali e delicati.

Approfondendo l’argomento abbiamo anche notato come la figura del debunker sia da un lato onorevole e positiva, ma d’altro canto anche controversa.

Innanzitutto, è da sottolineare come il tema dell’informazione sia centrale parlando di debunking. Abbiamo scoperto tramite alcuni casi studio, come ad esempio quello del 5G e di Blue Whale, come chi crea fake news di solito parta da un’informazione parzialmente reale e veritiera per creare caos e disinformazione attorno a temi sensibili, e come questo guidare l’informazione in maniera sbagliata possa portare alla modificazione e al condizionamento dei comportamenti umani. Un altro aspetto sicuramente centrale è stato quello di considerare le fonti e capire come queste vengano percepite dal pubblico. Il debunker, quindi, ha un compito davvero difficile affrontando una sfida non da poco e trovandosi spesso davanti a fenomeni di grande portata, anche mediatica.

Un ruolo centrale lo abbiamo individuato anche nei social media che spesso sono veicoli e responsabili di disinformazione e che hanno adottato strategie di debunking indipendenti, come la segnalazione dei contenuti. Inoltre, abbiamo compreso come la velocità dei mezzi di comunicazione odierni sia doppiamente nemica visto che nel web le fake news trovano un terreno più ampio per quanto riguarda la diffusione, e oltre a questo la velocità incide negativamente anche nella qualità dell’informazione che viene riportata agli utenti: le informazioni online, rispetto a quelle che girano nei media tradizionali, sono generalmente più superficiali e meno attente alle fonti.

Il debunking però ha anche il suo lato oscuro, e un bravo lettore dovrebbe sempre rivolgere uno sguardo critico e interrogarsi sull’etica di chi manipola l’informazione, oltre che comprendere quali siano le vere motivazioni che stanno alla base.

In una situazione storica come quella che stiamo vivendo tutto questo gioca un ruolo fondamentale, e ora caro lettore hai tutte le carte in regola e gli strumenti necessari per poter fare tu stesso debunking, per cui vogliamo metterti alla prova e vedere se riesci a debunkare questa fake news:

Sugli autori…

Virginia La Placa, appassionata di lingue, telefilm, passeggiate all’aria aperta, animali e eyewear, studia attualmente allo IUSVE nel campus di Mestre, frequentando il corso di laurea magistrale in Web Marketing & Digital Communication.

Giovanni Golfetto, freelance graphic designer e studente magistrale di Web Marketing & Digital Communication. Appassionato di tecnologia, natura e attualità

Ljuba Alexandra Marcolin, horror movies addicted, nuotatrice e perenne ritardataria, sta per concludere il primo anno del corso Web marketing e Digital Communication presso il campus IUSVE di Mestre.

Luca Giuglietti, tennista e intraprendente, startupparo per natura, studente magistrale di Web Marketing & Digital Communication

Veronica Goldin, lunatica e mai tranquilla cerco sempre di trovare nuovi stimoli. Ho lasciato il mio cuore in Spagna dove mi piacerebbe vivere, attualmente mi sto dedicando al digital marketing su cui spero di imparare sempre di più attraverso il mio percorso universitario

Elisa ghioni, appassionata di marketing, gioielli e montagna, studia web marketing e digital communication allo iusve nel campus di Mestre

Manfredi Gioffrè, tuttofare senza freni dalla frizzante curiosità, studente magistrale di Web Marketing & Digital Communication allo IUSVE di Venezia

Sitografia

Bibliografia

  • G.Ritzer, “Contemporary Sociological Theory and its classical roots. The basics”, McGraw-Hill Co., 2012
  • David J. Hess “Science in the New Age: Paranormal, Its Defenders and Debunkers and American Culture (Science & Literature)”, Univ of Wisconsin Pr., 1993